Oggi intervistiamo Maurizio Calvesi, direttore della fotografia per il cinema e la tv.
Maurizio Calvesi ha girato più di 100 film, tra i tanti citiamo “I viceré” di Roberto Faenza, “Non essere cattivo” e “L’odore della notte” di Claudio Caligari, “Mine vaganti” di Ferzan Özpetek e “Le confessioni” di Roberto Andò.
100 film sono veramente tanti, ma dobbiamo dire che Calvesi se li porta davvero benissimo. Per nulla affaticato da tanto carico, quando si presenta sul set con lui arriva anche una particolare energia. E’ uno che ha le idee molto chiare ed esperienza da vendere.
Un professionista così impegnato non credo abbia molto tempo da perdere, così vado giù secco con le domande:
Il film in cui ti sei sentito più in sintonia e libero di esprimerti?
È un po’ difficile sceglierne uno. Entro sempre in sintonia su tutti i miei film, da quando leggo la sceneggiatura a quando faccio la color correction finale.
Ce n’è uno però dove questa sintonia è stata particolare. Quando abbiamo girato “Non essere cattivo” il regista e amico Claudio Caligari stava già molto male; era già entrato in chemioterapia e a volte restava poche ore sul set, poi se ne andava, dei giorni addirittura saltava, insomma è stata una lavorazione molto complessa.
Grazie anche a Valerio Mastandrea e a tutta la “banda” Caligari siamo riusciti comunque a stare nei tempi stabiliti e a fargli fare tutto il film. Io personalmente ho dovuto togliere tempo a me per darlo a lui e questo mi ha portato a lavorare sul togliere, ottimizzare fino ad ottenere un registro minimal che alla fine ha premiato me e tutto il film, riuscendo al tempo stesso anche a rispettare e onorare il lavoro di un amico. Tutti, da Martinelli a Borghi a Mastandrea abbiamo portato qualcosa, io ho portato questo.
Tra i tuoi colleghi nel mondo chi è il più innovativo?
Premesso che certe volte soluzioni che sembrano innovative a me fanno l’effetto del prestigiatore esperto che vede fare certi trucchi “magici” dai suoi colleghi; un grande direttore della fotografia, che non faceva trucchi, che era veramente innovativo e che è stato per me anche amico e maestro, è stato Tonino Nardi. Purtroppo anche lui è morto molto giovane. Tonino Nardi quello che faceva in un film non lo faceva mai nel film successivo. È un approccio che mi ha passato. Anche per carattere rifare cose che ho già fatto mi annoia.
Poi chiaramente ci sono direttori della fotografia che ho adorato e non posso non citare, tra i non italiani: Conrad Hall, Robert Richardson, un altro grandissimo, Emmanuel Lubensky, che ha fatto dei film meravigliosi, Roger Deakins… Tra gli italiani, anche se abbiamo un approccio alla fotografia molto diverso, devo dire che trovo Bigazzi uno dei più interessanti.
Tutte le cose che hai imparato nel corso della tua carriera le stai insegnando a qualcuno o te le tieni per te?
Guarda io, molto democraticamente, non faccio nessun mistero di quello che penso e faccio e di come lo faccio. I miei assistenti, che poi sono diventati operatori e magari direttori della fotografia, mi vedono lavorare, mi chiedono, spesso provano a replicare soluzioni che io ho adottato in determinate scene. Io vengo da un mondo dove il direttore della fotografia era un po’ un grande mago col cappellone, il diaframma con la giusta esposizione non andava svelato, c’aveva dei filtri “particolari”… Io non ho nessun timore di essere copiato anche perché, come ho già detto, su di un film o in una scena faccio una cosa, nel film successivo in una scena simile mi invento magari tutta un’altra soluzione.
Il film che ti ha messo più in discussione?
Allora, in discussione no, però nell’ ultimo film a cui ho lavorato ho dovuto trovare un’idea, una soluzione fotografica che non è stata così immediata da realizzare.
È un film che uscirà tra pochissimo e che sarà presentato al festival di Roma. La regia è del mio amico siciliano Roberto Andò con il quale ho una collaborazione che dura da più di vent’anni. Si intitola “La stranezza” ed è ambientato nel mondo pirandelliano. Toni Servillo, grande attore, è Pirandello e Ficarra e Picone, che ho trovato straordinari, fanno due becchini che, per passione, recitano in una compagnia teatrale amatoriale.
È davvero un bel film, ma tornando alla fotografia, inizialmente si pensava al bianco e nero per rimanere coerenti con il mondo pirandelliano e come scelta naturale legata al periodo storico. Con questa scelta però avremmo dovuto rinunciare a tutte le sfumature che il colore ti permette. Così ho fatto tutta una serie di provini e sono riuscito a trovare una chiave fotografica che ricorda tanto il bianco e nero pur essendo a colori. Quando esce il film vai a vederlo, andate tutti a vederlo, e poi sappiatemi dire.
L’ultima domanda è un po’ alla Marzullo: Se dovessi raccontare a qualcuno che non conosce Maurizio Calvesi che tipo, che stile di fotografia ha Maurizio Calvesi, tu che mi diresti?
(Puoi anche rispondermi a pernacchie.)
Ho sempre pensato che se uno nella vita cerca uno stile non cerca niente. Lo stile o ce l’hai o non c’è l’hai.
Io non ho mai cercato uno stile, ho cercato naturalezza, semplicità e di essere un direttore della fotografia che volutamente spesso si mette da parte. Non ho mai fatto cose esagerate, non rompo mai l’incantesimo di un film, sono semplice, mi allontano, mi avvicino, sto dentro la cosa e intervengo quando serve.
È chiaro che un mio stile ce l’ho, lo sento, ma non sento il bisogno di mostrare o dimostrare qualcosa, la mia cifra è la semplicità ed essere diretti nel racconto.