Il cinque marzo del 1910 nasceva a Pescara Ennio Flaiano, uno degli scrittori italiani più citati e meno letti del secolo scorso.
Non esiste intellettuale, o presunto tale, che in Italia non tenga in serbo tre o quattro dei suoi aforismi per fare bella figura nel corso di qualche frivola conversazione.
Eppure Flaiano fu scrittore, giornalista e sceneggiatore di razza, anche se oggi viene scambiato – o peggio “ricordato” – quale un banale battutista da cabaret.
A soli dodici anni si trasferisce a Roma, il 27 ottobre del 1922, e viaggia su un treno pieno zeppo di camicie nere che si apprestavano a marciare sulla capitale.
All’inizio degli anni trenta condivide una stanza con il pittore Orfeo Tamburi e collabora come scenografo con Anton Giulio Bragaglia, futurista, commediografo e artista tra più importanti del periodo tra le due guerre.
Contemporaneamente diventa sodale di personaggi del calibro di Mario Pannunzio, Telesio Interlandi, Leo Longanesi e collabora a diverse loro riviste, tra le quali Omnibus e Quadrivio. Dal 1933 al 1936, dopo un soggiorno a Pavia per frequentare la Scuola Ufficiali, partecipa alla Guerra d’Etiopia.
Ma il periodo più fecondo si colloca tra il 1947 e il 1972, anno della sua morte.
In un ambiente in cui centinaia di pseudo intellettuali si vantavano – ma più spesso millantavano – di essere stati collaboratori de “Il Mondo”, Flaiano ricopre (per davvero) l’incarico di caporedattore nella prestigiosa rivista di Mario Pannunzio fino al 1951.
In seguito affiancherà all’attività di giornalista e scrittore quella di sceneggiatore cinematografico, lavorando fianco a fianco con registi quali Blasetti, Lattuada, Monicelli, Soldati, Rossellini, Antonioni e molti altri. Ma più di tutti partecipò alla realizzazione di ben dieci film di Federico Fellini, tra i quali La Dolce Vita e 8 ½, che vinse due premi Oscar.
Fu un intellettuale raffinato e instancabile, tanto che una delle sue frasi preferite era:
Io credo soltanto nella parola: la parola ferisce, la parola convince, la parola placa: questo per me è il senso dello scrivere.
Ed è un vero peccato che questo straordinario scrittore, amante sì del paradosso ma sempre sagace, lucido e intelligente, sia sottovalutato e misconosciuto. Forse perché tra le sue pagine riecheggiava quel Futurismo all’interno del quale si era formato?
Ma in questo mondo in cui “vivere è diventato un esercizio burocratico (citazione da “Il Gioco al Massacro”)”, non ci si può aspettare molto di più.