La Gran Bretagna ha deciso che, in futuro, verranno accolti solo lavoratori con elevata professionalità, con buona conoscenza della lingua inglese, con contratti economicamente di buon livello.
Ed i buonisti italiani si sono subito preoccupati per il futuro degli aspiranti lavapiatti italiani che sognano di approdare a Londra: non proprio cervelli in fuga..
Ma se Boris Johnson si immagina un’Inghilterra (non si sa se la Gran Bretagna sopravviverà unita) con un mercato del lavoro qualificato, l’Italia è alle prese con una situazione molto diversa. Nel corso di un convegno sul progetto Open Space, organizzato al grattacielo di Sanpaolo Intesa a Torino, è stato ricordato che il 29,9% del lavoro subordinato in Italia è composto dai mestieri che rientrano nell’elenco di quelli legati alle attività della formazione professionale. Anche se solo una parte di questi lavoratori ha conseguito un titolo di studio mentre altri svolgono mansioni di questo tipo pur avendo lauree di livello superiore.
Sono quattro le aree principali di queste professionalità: agroalimentare, abbigliamento, arredo casa, automazione meccanica. Ma con una infinità di altre attività, dai parrucchieri ed estetisti sino agli elettricisti ed idraulici.
Dunque una conferma sul distacco tra scuola, di ogni tipo, e lavoro. Colpa di tutti. Da un lato una scuola che non insegna, bloccata dalla cialtronaggine politicamente corretta. Un terzo dei diplomati di terza media – hanno spiegato i formatori – ha una preparazione inferiore a quella prevista per la quinta elementare. E le lacune diventano sempre più difficili da colmare e rendono estremamente complicati i rapporti con eventuali datori di lavoro. Sia per la maleducazione di ragazzi, che sono abituati a comportarsi male senza subire le conseguenze, sia perché non hanno imparato ad imparare. Ed in un mondo del lavoro in continuo cambiamento occorre formarsi senza sosta.
Sul fronte opposto ci sono le aziende che non valorizzano i percorsi formativi, attente solo a pagare sempre meno i dipendenti. Per la qualità chiedere a Boris.
Ma esiste un altro problema che viene pressoché ignorato. Nei prossimi anni abbandoneranno l’attività 200-300.000 piccoli e micro imprenditori solo nell’Italia del Nord. Un tessuto economico fondamentale per il Paese. Chi li sostituirà? Il pensiero unico obbligatorio ha la risposta solita: i migranti. Peccato che gli esperti seri assicurino che è una risposta sbagliata. Ragazzi che provengono da situazioni di difficoltà, con preparazione inadeguata, non possono trasformarsi in imprenditori di successo. Perché il successo è legato alla qualità del lavoro, oltre che alla disponibilità di risorse per avviare una attività che richiede spazi e macchinari. Vale per gli allogeni ma vale anche per gli italiani che non studiano, che non si formano e che, in compenso, si illudono.