La situazione dell’Argentina, alle prese con la difficile trattativa per la ristrutturazione del debito, è andata aggravandosi nel corso della prima metà di questo 2020 per via della pandemia e del crollo dell’economia mondiale, trattandosi di un Paese esportatore.
Nonostante le immani difficoltà di giungere ad un accordo con i fondi d’investimento esteri, detentori di significative quote del debito, il presidente peronista Alberto Fernández, il ministro dell’Economia Martín Guzmán e l’intero esecutivo della Casa Rosada hanno sempre posto come obiettivo imprescindibile della nuova amministrazione, subentrata a quella disastrosa del liberista Mauricio Macri, l’accordo necessario al rilancio sui mercati internazionali del Paese del Sudamerica.
Le trattative proseguite senza sosta hanno inizialmente provocato solo uno slittamento della data dopo la quale la nazione latinoamericana sarebbe stata dichiarata nuovamente in default, cosa non nuova a quelle latitudini. A non concedere grandi aperture al governo albiceleste sono stati soprattutto i fondi avvoltoio che già pregustavano l’apertura di procedure d’infrazione ai danni di Buenos Aires nei tribunali internazionali.
Strano a dirsi, fin dal mese di maggio era stato il Fondo monetario internazionale a spendere più di una parola a favore del piano proposto dal governo peronista scongiurando l’inevitabile.
L’accordo definitivo porterà ad una riduzione del 45% del debito, un dato che Fernández ha annunciato con entusiasmo sostenendo come si sia “risolta una crisi del debito impossibile nel mezzo della maggiore crisi economica che si ricordi e della pandemia. In questi mesi ci hanno detto che stavamo sbagliando, andando verso il fallimento. Finalmente un accordo che permette all’Argentina di risparmiare 33 miliardi di dollari di debito assunto per i prossimi dieci anni”.
Il primo impegno assunto nel corso della trionfale campagna elettorale dalla coalizione populista è stato portato a termine, ora, però, bisognerà lavorare per restaurare i diritti sociali, dalle pensioni ai sostegni alle famiglie, che Macri aveva cancellato per spazzare via l’era Kirchner.