I tromboni del mainstream, pennivendoli e gazzettieri pagati dal sistema a sua volta sostenuto dalle svariate lobbies della dissoluzione, continuano a martellare i neuroni e a centrifugare ovaie e testicoli predicando l’irresistibile progresso verso cui sta veleggiando la nostra post-modernità.
Dove c’è oscenità, cattivo gusto, depravazione, necrofilia, profanazione, immoralità, indecenza, bruttura, necrofilia, sacrilegio: lì c’è progresso. Nelle peggiori esternazioni del male, della disarmonia, del disordine e della stessa sovversione delle leggi di natura – dalla moda alla letteratura, dal cinema agli oggetti per bambini, dalla sessualità ai rapporti personali e via via elencando –, i negromanti del potere esaltano il superamento di ogni limite e la libertà da qualsivoglia divieto. Il tabù – basti pensare all’incesto, alla pedofilia, all’aborto autogestito fino al nono mese – è considerato dai becchini della nostra civiltà come un ostacolo da abbattere per la totale liberazione di istinti e pulsioni.
“Per me non c’è un’idea più alta di quella che Dio non c’è”, proclama Kirillov dei Demoni di Dostoevskij, e in fondo “Tutti stanno cadendo da tempo e tutti sanno da tempo che non c’è nulla a cui aggrapparsi”. È questa la liberazione non dell’uomo, ma dall’uomo, dalla sua umanità, dalla sua trascendenza, dal senso stesso del suo esistere.
Accecati dall’adorazione di questo idolo – il progresso, appunto – hanno voluto, o sono stati finanziati per farlo, confondere il miglioramento della vita materiale e la accorta concessione di alcuni diritti con il disfacimento di ogni regola e di ogni principio.
Ed è così che con il materialismo si è inesorabilmente scivolati al relativismo assoluto, dove bene e male, giusto e sbagliato, vero e falso, reale ed irreale sono solo interpretazioni derivanti dal condizionamento culturale. Omologa tutto e vedrai che alla fine niente avrà più senso.
È questa la decadenza, quel nichilismo che permea e metastatizza ogni ganglio vitale della nostra civiltà. Colpisce l’immaginazione Michel Onfray quando rileva che “si parla del progresso di un tumore o di un’altra malattia che porta inesorabilmente alla morte”.
Il progresso, inteso come deformazione della tendenza dell’uomo a migliorare, si è degenerato in decadenza nella sua forma più estrema, quella dell’avversione verso il passato e nella perdita di ogni senso nel futuro. Le antiche narrazioni si sono ridotte a cronache della quotidianità, e ogni anelito di progetto personale e generale è orami atrofizzato.
Per certi versi il nichilismo, se è il veleno della decadenza della civiltà, potrebbe essere anche il suo farmaco salutare. Il problema è chi sarà capace di dosarne la quantità, chi sarà in grado di applicare una mirata riabilitazione, chi sarà in grado di valutarne i punti di forza e avrà il coraggio di estirparne le radici morte.
Questo è il punto-limite. Quando il nichilismo, come nel tempo odierno, si esprime nel caos, esso ha in sé l’opportunità di un nuovo ordine, di creare un terreno creativo per nuovi destini.
È vero, come denuncia Onfray, che “la libertà si rimpicciolisce come una pelle di zigrino”, ma essa non sarà rivendicata certo dai neutralisti dell’opinione o dalla delicatezza dei moderati. Essa si accompagnerà, è presumibile, alla figura metaforica del delinquente di Jünger: di colui che è consapevole del gioco di bari in atto, è conscio dell’ingiustizia quotidianamente perpetrata, è immune da ogni forma di incantesimo sedativo, è refrattario alla paura e, soprattutto, è abile nell’agire in quel silenzio che più delle parole è temuto dalla tirannia.