Digitando la parola “agricoltore” nella sezione immagini di qualsiasi browser, compaiono immancabilmente figure di persone con camicia e cappello di paglia, armate di zappa ed intente nella lavorazione manuale di un terreno. Si tratta di una stereotipizzazione, ormai parodica, che si è andata a costruire a partire dal secondo dopoguerra nella sempre crescente popolazione cittadina e nella sua cultura.
L’immaginario comune resta in qualche modo legato allo stato dell’agricoltura nel periodo in cui, in Italia, ma genericamente in tutti i paesi più industrializzati, è cominciato il grande esodo dai territori rurali prevalentemente agricoli verso le fabbriche e le città. Si tratta dell’idealizzazione di un mondo rurale aureo, semplice e naturale, compiuta dalle masse di operai urbani ormai alienate dalla propria condizione precedente.
Non serve dilungarsi sullo stato attuale dell’agricoltura italiana, fatta di trattori e macchine moderne, impianti e serre con coperture quasi industriali – crescente attenzione verso la robotica e le intelligenze artificiali – per far risaltare il distacco che sussiste tra realtà e raffigurazione. L’agricoltore italiano, insomma, ha un aspetto ben diverso da quello che corrisponde all’immaginario comune.
Lo stereotipo di agricoltore si accompagna ad una mistificazione dell’attività agricola in generale. L’agricoltura è certo legata indissolubilmente alla categoria del naturale, tuttavia va piuttosto definita come il primo primordiale tentativo umano di porre il proprio dominio sul mondo della Natura. De facto l’agricoltura può essere definita come una modificazione sistematica dell’ecosistema in cui, in un determinato ambiente, le specie vegetali, animali, fungine esistenti naturalmente vengono sostituite con controparti che sono invece utilizzabili nell’alimentazione e nelle attività umane.
Seguendo questa precisazione possiamo quindi affermare che il territorio agricolo è un territorio pienamente antropico, così come l’attività agricola, pur avendo a che fare con entità biologiche naturali, deve essere considerata una attività se segue primariamente le necessità degli uomini. In questo senso, l’agricoltura potrebbe essere considerata come il settore produttivo più intimamente interessato nel mantenere gli equilibri ecologici perché è quello maggiormente impegnato nella conservazione del territorio e nella tutela della biodiversità.
All’interno degli stereotipi, di cui è stato sopra discusso, il giudizio di valore è assegnato in base alla vicinanza o lontananza dell’agricoltura presa in discussione con l’agricoltura ideale. Il vecchio contadino con zappa e cappello di paglia è sinonimo di genuinità e viene valutato positivamente; al contrario, il contadino dotato di mezzi agricoli moderni che costruisce scientificamente l’ambiente di coltivazione ideale ed impiega tecnologia, non è valutato positivamente.
Sembra passare inosservato il fatto che sia la seconda categoria quella che produce la quasi totalità del cibo di cui facciamo uso quotidianamente, dal cibo km0 a quello biologico a quello esotico.
In Italia c’è la necessità di riformulare il concetto di agricoltura per smarcarsi dalle valutazioni approssimative che scaturiscono dalla scarsa conoscenza del settore. Se vogliamo che il nostro comparto agricolo ed il Made in Italy alimentare abbiano un futuro, dobbiamo tentare di rivoluzionare il modo in cui viene presentato il comparto produttivo agricolo. Gli investimenti economici in agricoltura devono essere accompagnati dalla promozione di modelli culturali in cui sostenibilità ambientale, economica e sociale dell’agricoltura si incontrino.
“La natura non sta necessariamente dalla parte del più forte. La natura sta dalla parte della specie che sa far valere un vantaggio tecnologico sull’altra.”