Ormai tutte le forze politiche guardano di buon occhio la creazione di un’unica società nazionale che abbia come obiettivo lo sviluppo della fibra su tutto il territorio italiano. Ma è sul come farlo che le opinioni divergono. Non solo quelle politiche, ma anche quelle delle società interessate. All’Italia serve una rete unica nazionale in grado di portare la fibra in ogni angolo del Paese. Serve per colmare il gap dei luoghi più o meno remoti della Penisola; serve perché l’emergenza coronavirus ha ricordato a tutti quanto fondamentale sia la connettività per garantire lo svolgimento delle attività quotidiane, dal lavoro alla scuola; serve perché senza un’Internet adeguata è impensabile sviluppare un’economia che sappia sfruttare la leva del digitale.
Uno degli obiettivi del Recovery Fund è la digitalizzazione dei Paesi beneficiari (209 miliardi solo per l’Italia) con investimenti nella rete di ultima generazione, 5G per il mobile, fibra per il fisso. Sono la pandemia da Covid e l’avvento dello smart working su larga scala che motivano tale orientamento dell’Ue. Ci sono i numeri a confermare il grande momento delle tlc: nel 2020 il mondo delle tlc in Europa genererà accordi per 60 miliardi e, di questi, 24 riguarderanno la fibra.
La sfida italiana è operare nel più breve tempo possibile un salto di qualità nella rete. L’obiettivo è avere un’infrastruttura nazionale capace di cablare a fibra e 5G l’intero Paese, dalla città al borgo più sperduto. Il progetto si è costantemente impantanato a causa di una serrata concorrenza, dove la politica ha un ruolo dominante tra i due principali player del mercato: Tim, oggi primo operatore nazionale senza un vero socio di controllo e Open Fiber, il player di Stato controllato pariteticamente da Cassa Depositi e Prestiti ed Enel.
Gli interessi in gioco sono tanti e non sono solo industriali. Gli stessi partiti, dalla Lega a Italia Viva, passando per il Pd, Forza Italia e ovviamente il M5S, non sembrano concordare più di tanto, dando vita a una problematica che sarà difficile da risolvere.
Tutte le forze politiche guardano di buon occhio la creazione di un’unica società nazionale che abbia come obiettivo lo sviluppo della fibra su tutto il territorio nazionale. Ma è sul come farlo che le opinioni divergono. Non solo quelle politiche, ma anche quelle delle società interessate. Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri sottolinea la necessità di una rete unica nazionale, ma “senza espropri sovietici” e rispettando le dinamiche del mercato. Sulla stessa linea, ma con sfumature diverse, Alessandro Morelli della Lega, che ha ricordato come la Lega sia da sempre pro rete unica, “ma va capito quale società deve farla e come risolvere la partita tra Tim e Open Fiber”. Il sottosegretario allo Sviluppo economico Gian Paolo Manzella si è detto favorevole alla rete unica, ricordando però la necessità che il gestore “abbia una forte presenza dello Stato”. Beppe Grillo auspica la nascita di una società unica delle infrastrutture integrando con Open Fiber.
Mentre in altri Paesi c’erano e ci sono le reti della tv via cavo e quelle telefoniche, in Italia le prime mancano. I cavi della tv avrebbero potuto fornire un’alternativa ai cavi della rete telefonica: reti, pozzetti, tracce sotterranee da cui far passare i cavi della banda larga. I problemi sono cominciati quando internet ha cominciato a richiedere sempre più capacità di dati rispetto a quella che poteva garantire la sola rete telefonica. A questo si aggiunge la peculiarità della distribuzione della popolazione sulla Penisola, l’esistenza di comuni piccoli e piccolissimi, spesso in montagna e sulle isole. È stata l’esigenza di mercato a fare diffondere internet veloce nelle città a scapito della montagna. La creazione di infrastrutture si è concentrata soprattutto dove gli operatori avevano ragionevoli possibilità di guadagno: le città di medie e grandi dimensioni, circa il 12% della popolazione. Eppure non è solo qui che gli italiani vivono, né è solo qui che il Paese lavora, produce, crea ricchezza. Insomma al Paese serve una sola società a cui affidare la gestione di una grande infrastruttura nazionale capace di cablare a fibra e 5G tutta l’Italia, dalla città al borgo più sperduto.
Stefano Quintarelli, imprenditore ed esperto di Tlc, ne spiega il perché: “I business come questo della rete sono legati alla densità abitativa. Diventano profittevoli solo in aree dove la popolazione è concentrata e c’è molta domanda. Quindi il problema italiano nasce dalla difficoltà di conciliare i corretti interessi dell’azienda, i suoi obiettivi di bilancio, e l’obiettivo della politica di dotare il Paese di una rete ad alta capacità e a prova di futuro”. Quintarelli crede nell’operazione Open Fiber:”Dire che una società che fa energia non possa creare l’infrastruttura della fibra è sbagliato. Enel aveva ciò che costituisce la parte principale dell’infrastruttura per distribuire i cavi in fibra: aveva i tubi, i pozzetti, serviva in più un po’ di vetro e un po’ di elettronica. E poi con l’utilizzo dei bandi europei si è aggiudicata gare e fondi per poter portare avanti le operazioni”.
Si è creata una concorrenza che, secondo Quintarelli, Tim ha sofferto. Da qui, spiega Quintarelli, l’idea del governo, che ha quote in Tim, in Enel con Cdp soprattutto in Open Fiber: “È da qui che nasce l’idea di un operatore unico per le reti. Ma vanno messe d’accordo le società, perché al momento la partita su chi abbia il pallino della governance non è conclusa”. Tim ha ancora il grosso della rete ma bisogna stabilire chi controllerà la rete unica. Perché è chi controllerà la rete a decidere investimenti e a distribuire dividendi. Un altro aspetto da tenere in considerazione sarà il ruolo dello Stato che dovrà seguire la “regia”di questo ambizioso progetto. Vi sarà poi da superare l’ostacolo di Bruxelles, la riconcentrazione in un operatore unico può avvenire solo in casi assai limitati. Se sarà trovato un accordo, bisognerà convincere l’Europa che tutto è giustificato dalla particolarità della situazione Italiana, dovuta alla sua storia, al suo territorio e a come si distribuisce sulla Penisola la sua capacità di creare valore.
La pandemia ci ha mostrato alcune fragilità ma anche fatto percepire un possibile meccanismo di accelerazione dei processi che ci portano a digitalizzare il Paese. È lo stesso ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli a metterci in guardia: “Sulla digitalizzazione l’Italia ha un grande ritardo e credo che il ruolo del governo sia quello di fissare degli obiettivi. La rete unica nazionale è uno di questi. Ritengo si possa dire che oggi l’accesso alla rete sia accesso alla democrazia, le infrastrutture materiali e immateriali sono un modo per garantire democrazia nel nostro Paese – ha spiegato – In questo contesto definire il ruolo che lo Stato deve giocare nelle rete unica è uno degli obiettivi che il governo deve fissare. Durante gli Stati Generali, molti, soprattutto nel mondo delle partecipate, sono venuti a offrire il proprio contributo per superare questo momento, mettersi a disposizione per essere centrali, offrire soluzioni anche in termini di digitalizzazione”. Non sarà un facile obiettivo dato che dobbiamo recuperare anni di ritardi che il nostro Paese ha accumulato, con investimenti limitati e inferiori alla media europea ma questi tre anni (in cui Open Fiber ha cominciato ad operare) hanno consentito di recuperare 10 posizioni nell’indice europeo sul livello di digitalizzaione (Desi), abbiamo ancora 4 punti percentuali da recuperare sulla media europea. La crisi sanitaria ha reso ancora più chiara la necessità del passaggio dal rame alla fibra e di dotare il Paese in modo rapido ed efficace di una infrastruttura abilitante per la rivoluzione digitale. L’operazione Open Fiber e il progetto di rete unica hanno lo scopo di far fronte a questo deficit originario.