“Prima della civiltà c’è la foresta. Dopo la civiltà c’è il deserto”.
Lo ha detto, più o meno con queste parole visto che vado a memoria, Renè de Chateaubriand. Lui, l’autore di “Memorie del sottosuolo” e de “L’ultimo degli Abenceraghi” conosceva bene la foresta. Vi aveva vissuto nelle lontane Americhe, quando aveva dovuto abbandonare la Francia perché avverso, aristocratico cadetto di Navarra, alla Rivoluzione e ai giacobini. Vi tornerà, poi, per combattere nell’Armata degli emigrati. E resterà ferito… Ma questa è altra storia…
In America visse nella foreste. Con i Natchez. Una vasta confederazione tribale appartenente alla stirpe dei Creek. E imparentata con i più famosi Cherokee. Sperimentò così la vita dei nostri antenati, cacciatori e raccoglitori. Prima dell’inizio di quella che chiamiamo Civiltà. E la cantò, quella vita, in uno dei suoi poemi.
Fu lì, probabilmente, che l’aristocratico controrivoluzionario, uno dei primi romantici francesi, ebbe l’intuizione che la civiltà viene dalla Foresta. Che la precede e ne rappresenta la matrice culturale. Una cultura, però, anzi una Kultur magmatica, selvaggia, feroce. E proprio per questo vitale.
Perché la Cultura non è la Civiltà. Non è qualcosa di definito, regolato, con una sorta di armonia. La Cultura è fatta di contrasti. Dissonanze. Antitesi violente. Tomas Mann definisce con estrema lucidità questo dualismo nelle sue “Considerazioni di un impolitico”. Opera maledetta, ma mai davvero ripudiata.
Della Cultura fa parte il sacrificio umano, e persino il cannibalismo rituale. Accanto alla creazione artistica, alla musica, alla danza. Nella cultura vi è l’orgia, e anche la guerra. Le forze dell’uomo non sono aliene dalla natura. Anzi, il rapporto è simbiotico. E crudele.
O per lo meno così appare a noi, uomini “civili”. Che dalla natura ci siamo, ormai , completamente alienati. Siamo usciti dalla Foresta. E abbiamo costruito la Civiltà. Che, in origine, altro non era che l’elaborazione della Cultura primigenia. Quella della Foresta. Della quale, però, un po’ alla volta ci siamo dimenticati.. Siamo diventati più… raffinati. E, inevitabilmente, sempre più deboli. Molli. Flaccidi.
Tacito – che, alla fin fine, è uno dei maestri che ritornano sempre – raffronta, con preoccupazione, il vigore primitivo dei Germani, con la mollezza civile dei Romani del secondo secolo. Ormai dimentichi dei loro avi, feroci e affamati, che avevano edificato l’impero. Popoli giovani e popoli vecchi. Sempre a questo dualismo, si deve tornare. Perché, a ben vedere, rappresenta la dinamica fondamentale della storia…
Dopo la civiltà, però, non c’è più la Foresta. C’è il Deserto. Perché le civiltà decadenti sono sterili. Incapaci di generare. Come i popoli ricchi e vecchi che non fanno più figli. E che provano fastidio davanti ai bambini. Quasi odio per i giovani. Ne abbiamo avuto la drammatica riprova in questi mesi . L’egoismo dei vecchi, la loro paura, la brama sterile di restare abbarbicati ad una parvenza di vita. Il totale disinteresse per il futuro del paese. Si è tradotto in un vero e proprio odio per i giovani. Per la loro voglia di vivere. Per il loro avere speranze per il futuro. È così che muoiono i popoli. È così che le civiltà tracollano. E avanza il deserto.
L’età media in Congo è sedici anni. Inutile lamentarsi e temere l’invasione. È nella natura delle cose. È inevitabile…
Verrà il deserto. Come dice Chateaubriand. E della nostra sterile e smidollata civiltà non resterà nulla… Forse l’unica strada sarebbe cercare una Foresta. E tornare alla condizione primitiva. Riscopre la propria natura anche nei suoi aspetti ferini. E il rapporto simbiotico con la potenza della Natura. Con gli antichi Dei, se vogliamo. Spietati e bellissimi.
Ma questa è una via per pochi. Per i Ribelli, come profeta Ernst Jünger. Capaci di tornare al bosco. Di rischiare.
Per tutti gli altri c’è solo il deserto. La morte che tanto terrorizza gli uomini civili.