Abbiamo già ricevuto numerosi avvertimenti sullo stato di salute della Terra: l’ultimo campanello di allarme giunge dal World Wide Fund for Nature, universalmente noto per il suo logo con il panda e le campagne a sua difesa. E quando una madre urla è perché il pericolo è serio.
Il nuovo report annuale del WWF sulla situazione ecologica del pianeta mostra dati molto gravi: il “Living Planet Index” infatti continua a declinare, mostrando una riduzione del 68% della fauna globale di mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili, dal 1970 a oggi. La maggior contrazione (94%!) è avvenuta nelle zone climatiche subtropicali del continente americano, mettendo in serio pericolo la biodiversità terrestre.
Il problema è iniziato con l’era industriale, che ha segnato la progressiva distruzione dell’eco-ambiente e in particolare di foreste, pascoli e terre umide, dove si concentra la gran parte della vita selvatica globale. Ma anche per i due poli e le aree glaciali le cose vanno male: il 75% delle superfici congelate della Terra hanno subito un’alterazione, così come gli oceani e le zone umide distribuite un po’ ovunque che si sono ridotte o subiscono importanti processi di inquinamento.
Il rapporto WWF informa che perdurando questo stato di cose, oltre 1 milione di specie animali o vegetali e di insetti si estingueranno, determinando un decisivo calo di biodiversità: un problema per la gran parte degli esperti, che inevitabilmente ricadrà sulla “specie regina”, l’essere umano, il quale è il principale responsabile di fondamentali trasformazioni ambientali dovute alla conversione di habitats naturali nativi in terreni coltivabili, con la conseguente eradicazioni di boschi, foreste, mangrovie e praterie, e alla pesca dissennata che ha enormemente impoverito i mari di alcune specie, interrompendo così molte catene alimentari marine.
Dagli anni ’70, inoltre, questi processi sono diventati esponenziali in correlazione alla crescita della popolazione umana (pressoché raddoppiata) e dei suoi consumi (quadruplicati), sia di tipo alimentare che di altro genere, e dei commerci (decuplicati).
Come insegnano le teorie antropologiche e della geografia economica, l’impatto umano sull’ambiente porta al suo drastico cambiamento, per cui l’uomo deve essere in grado di gestirlo, pena la sua estinzione. In agricoltura, ad esempio, sono fatali i prodotti chimici, fertilizzanti e pesticidi utilizzati in misura crescente nei metodi di produzione intensiva ormai diffusi in tutti i paesi, che oltretutto hanno raggiunto livelli di beni e quantità persino eccessivi, tanto che oggi abbiamo il problema dello smaltimento dei rifiuti, se non addirittura degli sprechi, alimentari.
Il WWF lo dice chiaramente nella sua relazione: la perdita di biodiversità terrestre non è da imputarsi al cd. “cambiamento climatico” (di cui si parla molto ma che a molti non è ancora chiaro cosa significhi), sebbene incida parecchio sulla variabilità genetica del creato, sulla ricchezza della speciazione e della popolazione, nonché sull’equilibrio dell’ecosistema stesso. Pertanto, secondo l’organismo mondiale di protezione della natura i problemi della perdita di biodiversità e del cambiamento climatico devono essere trattati e affrontati insieme.
Il WWF suggerisce di inserire il valore economico dell’ambiente nel computo della ricchezza del bilancio di patrimonio e finanze di ogni paese e di tutta la comunità mondiale: infatti, la perdita di biodiversità agisce direttamente sui livelli di ricchezza, benessere, disponibilità di cibo e di risorse naturali, che infine incidono sulla vita quotidiana degli esseri umani e delle economie locali e globali.
Considerando che la perdita di specie animali e vegetali solitamente colpisce maggiormente le popolazioni più povere e sprovviste della Terra, esacerbando così i conflitti sociali interni agli stati e globali, accendendo anche un quesito morale che riguarda la responsabilità del genere umano tutto rispetto alla conservazione della Terra.
Non si tratta di entrare nella sfera religiosa, in particolare della concezione creazionista che vuole l’uomo “a immagine di Dio” e depositario della conoscenza suprema e del compito di amministrare al meglio i beni del pianeta: è sufficiente ricorrere alle categorie dell’etica per comprendere abbastanza facilmente che “la buona vita” degli uomini non può che dipendere anche da un rapporto positivo e di coesistenza con la natura. O se preferite, con Madre Natura.
A questo proposito, mi viene in mente l’episodio recente dell’orso M49, altrimenti nominato “Papillon”, che nei giorni scorsi ha riempito le cronache nazionali per la sua “fuga” dal recinto nel quale era stato confinato sin dalla sua cattura: il plantigrado è stato avvistato fuori dall’area predisposta dalla Provincia di Trento (dove risiedono stabilmente altri due orsi), che aveva già predisposto l’ordine di sopprimere l’animale se fosse diventato pericoloso per l’uomo, quindi seguito attraverso le tracce biologiche, nonché dai resoconti giornalistici che lo paragonavano ad un pericoloso criminale evaso e in libera circolazione fra gli abitanti locali, come se fosse un intruso in un habitat che in realtà è più suo che nostro.
La caccia all’orso è diventata ormai un leit motiv ripetuto negli ultimi tempi nei tg e sui quotidiani nazionali, sempre più rivolti al sensazionalismo e al “terrorismo mediatico” che alla notizia vera in sé. Un orso che si muove liberamente in un ambiente di alta montagna, magari in cerca di cibo o riparo, mi pare una cosa del tutto normale. Anzi, naturale. Così come è istintiva l’aggressione a qualsiasi essere vivente che possa mettere in pericolo la vita dei suoi cuccioli, che sia uomo o di altra specie animale, mentre viene descritta come una grave violazione della nostra tranquilla vita civilizzata.
Ecco che giunge, quindi, il rapporto annuale del WWF a ricordarci che l’uomo non potrebbe sopravvivere senza le infinte risorse che la Natura ci mette a disposizione, nella sua infinita biodiversità: dal cibo, alle fibre, dall’acqua alle fonti energetiche, dai materiali genetici alle pelli di animale, l’uomo da quando esiste sfrutta queste possibilità per sostentarsi e definire il suo ambiente quotidiano di vita.
Da qualche tempo in qua, invece, lo sviluppo economico, civile e tecnologico ha superato dei limiti oltre i quali si va direttamente all’autodistruzione del pianeta e della stessa specie umana. La questione, inoltre, non è solo economica, ma ha risvolti anche culturali e semantici: immaginate come potremmo in seguito spiegare ai nostri figli cosa è il coraggio senza avere l’esempio del leone, o la paura del coniglio, o la furbizia della faina o la fedeltà del cane.
Aldilà di questi esempi, il rapporto dell’uomo con la natura circostante ha da sempre definito le sue coordinate culturali, etiche, religiose e persino politiche. Una generazione che distrugge l’ambiente che lo circonda e da cui dipende, senza rendersene conto, ha perso totalmente il senso della realtà e delle vita.
Come afferma ancora il report WWF, la Natura puntella tutte le dimensione della salute umana e contribuisce su quei livelli non-materiali che sono centrali per valutare la qualità della vita e di integrazione socio-culturale, attraverso le esperienze fisiche e psicologiche che ispirano e infine modellano le nostre identità. Che umanità sarebbe, dunque, quella costretta a vivere su un pianeta desertificato, sia delle varie specie di piante che di animali? Che idea avrebbe di sé l’uomo senza essere circondato dalla Natura, con tutti i suoi pericoli e le sue opportunità? Cosa rimarrebbe della forma di coscienza superiore che distingue l’essere umano dalle altre specie animali, se queste venissero a scomparire? Quesiti da rivolgere a chi oggi amministra il patrimonio naturale ed ecologico terrestre, nonché l’umanità intera.
(per chi volesse leggere il resoconto del WWF, apra il seguente link: https://c402277.ssl.cf1.rackcdn.com/publications/1371/files/original/ENGLISH-FULL.pdf?1599693362)
Photo credits by Maria Infantino