La presidentessa ad interim della Bolivia Jeanine Áñez ha annunciato il ritiro dalla corsa a Palazzo Quemado ad un mese dalle votazioni fissate per domenica 18 ottobre.
Dietro questa scelta la consapevolezza di essere distante dalle prime due posizioni, che aprirebbero le porte al ballottaggio di novembre, e il rischio concreto che la frammentazione della destra liberale, presentatasi con molteplici candidature alla massima carica istituzionale della nazione andina, comporti la vittoria al primo turno del socialista Luis Arce.
Stando agli ultimi sondaggi, infatti, l’ex ministro dell’Economia dei governi guidati da Evo Morales sarebbe sopra la soglia del 40% e ben oltre i 10 punti percentuali di vantaggio sul primo degli sfidanti, necessari ad evitare il secondo turno. In politica, però, si sa che il travaso di voti da una lista all’altra o da un candidato all’altro non segue la logica matematica e non è detto che tutti i sostenitori dell’Áñez si rechino ai seggi con la convinzione di portare in dote la propria preferenza all’ex presidente Carlos Mesa, indicato unanimemente come il principale sfidante del candidato del Movimiento al Socialismo (MaS).
I guai per la Áñez non finiscono qui dato che la recente pubblicazione del rapporto stilato da Human rights watch ha accertato le gravi violazioni commesse nel corso di questi mesi dal nuovo esecutivo che si è servito del sistema giudiziario per perseguitare alleati e sostenitori dell’esule Evo Morales, attualmente in Argentina e privato della possibilità di concorrere per un seggio al Senato.
Come sostenuto anche sulle colonne del New York Times dal politologo boliviano Diego Von Vacano, “quello boliviano assomiglia sempre più ad un regime militare in cui il governo del Paese utilizza la giustizia come arma di persecuzione politica”.