Robert Capa, un bluff costruito a tavolino? Il fotografo ungherese, che in realtà si chiamava Endre Erno Friedmann, è considerato uno dei maestri mondiali della fotografia ma qualche perplessità non manca dopo aver visto la mostra che Torino ha dedicato alle sue immagini a colori. Certo, Capa è noto soprattutto per i suoi scatti in bianco e nero, a partire dalla foto del miliziano morente, diventata una immagine simbolo della guerra civile spagnola. Ovviamente dalla parte repubblicana, visto che il fronte franchista non è mai riuscito ad imporre le proprie immagini.
Peccato che si stia facendo strada la convinzione che la foto sia un falso e che non sia neppure di Capa, bensì della sua compagna di allora, Gerda Taro. Falsa perché preparata e riprovata, di Gerda perché scattata con la macchina fotografica che usava lei e non con quella che usava lui. Casualmente la foto è stata pubblicata solo dopo la morte della compagna. Che, a quel punto, non poteva rivendicare la proprietà dello scatto.
Ma, a parte ciò, la mostra torinese non nasconde – con un coraggio davvero apprezzabile – che molti dei servizi fotografici a colori di Capa erano stati rifiutati, o comunque poco apprezzati, dai giornali che glieli avevano richiesti. Il fotografo viveva sulla fama ottenuta al seguito delle truppe americane nella seconda guerra mondiale. Embedded, si direbbe adesso. E non è proprio sinonimo di libertà.
Finito il conflitto, e tentato dal colore che già aveva utilizzato per osannare la guerra americana, si dedica a reportage che, troppo spesso, assomigliano a quelli realizzati da un normale turista. Foto banali, inquadrature scontate. L’unico pregio era quello di mostrare al pubblico alcune località non ancora inserite nei tour vacanzieri. Dalla piazza Rossa di Mosca all’Africa del Nord. Per poi passare ad immortalare i vip del tempo ripresi nei luoghi di villeggiatura più esclusivi. Con qualche scatto interessante sulle nevi svizzere o austriache, o sulla costa francese del nord.
Ma, come capita a volte, Capa chiude in bellezza (vera) una vita professionale sopravvalutata. Con un reportage in Indocina, in cui emerge finalmente la partecipazione del fotografo alla realtà in cui opera, prima di saltare in aria su una mina calpestata inavvertitamente mentre cercava un’inquadratura.
Photo credits by Maria Infantino