Quanti disastri provoca l’assurda giustizia italiana? Quanti morti sono da addebitare ai magistrati oltre che agli assassini? Antonio Manzini abbandona, per una volta, il vicequestore Schiavone e si addentra nei meandri delle mente umana sconvolta da un omicidio. “Gli ultimi giorni di quiete” (edito da Sellerio, 14 euro per 231 pagine) è un libro ispirato da una storia vera. E questo lo rende ancora più angosciante.
Un ragazzo ucciso nella tabaccheria del padre da un rapinatore che, come accade molto spesso, dopo pochissimi anni è già fuori a rifarsi una vita. Giusto? Sbagliato? Manzini non prende posizione. Lascia il giudizio al lettore che può seguire lo strazio dei genitori, mortificati dalla giustizia, e le speranze del rapinatore/assassino.
“Ho pagato il mio conto, seppur un conto leggerissimo. Ora posso pensare all’amore, all’idea di un figlio, ad un lavoro onesto”. Perché negare un futuro? Già, ma il futuro è stato negato al ragazzo ucciso nella tabaccheria. Per lui niente famiglia, niente lavoro, niente di niente. Ed i genitori? Hanno un futuro, dopo che il loro unico figlio è stato ucciso?
Tre persone, tre modi differenti di affrontare il “dopo”. Storie che, inevitabilmente, si intrecciano con quelle di chi sta intorno. L’ex fidanzata del morto, la nuova compagna dell’assassino. È possibile un riscatto? È possibile dimenticare e superare il dramma personale? La vendetta può alleviare il dolore, quando non si può sperare nella giustizia?
Anche se si tratta di un giallo anomalo e molto particolare, non è il caso di svelare il finale benché si possa intuire abbastanza presto. Ma non è certo questo l’elemento fondamentale di un libro scritto bene, come sempre. Con un approfondimento psicologico superiore a quello dei romanzi ambientati ad Aosta con Schiavone. E con una nota molto ma molto più amara.