È la grande assente dall’accordo Rcep che favorirà gli scambi commerciali tra la Cina ed i principali Paesi dell’Oriente e dell’Oceania, compresi quelli (la maggioranza) che politicamente sono filo statunitensi. L’India non ha firmato l’intesa, anche se molti analisti ritengono possibile un’adesione successiva ad una realtà che già così vale il 30% del Pil mondiale.
Ma la scelta di Narendra Modi, premier indiano, non è per nulla imprevista e tantomeno improvvisata. Il subcontinente indiano ha una popolazione immensa ma un’economia fragile. Con punte di assoluta eccellenza mondiale, con gruppi estremamente ricchi, ma anche con un’agricoltura arretrata da cui dipende direttamente o indirettamente l’occupazione di due terzi della popolazione. Quanto all’industria, oscilla tra settori d’avanguardia mondiale ed altri che non reggerebbero alla concorrenza legata all’importazione di prodotti cinesi a basso costo grazie all’eventuale adesione a Rcep.
Senza dimenticare i contrasti geopolitici con la Cina. Nelle scorse settimane ci sono stati morti e feriti negli scontri per il confine sull’Himalaya. E l’occupazione cinese del Tibet non è mai stata digerita in India. Così come non si sono mai normalizzati i rapporti con il Pakistan.
Però, in una fase di crescenti aggregazioni, l’India avrà bisogno di alleati. Non solo occasionali ma anche strategici. Mica facile. I rapporti con il mondo islamico si sono complicati da quando Modi ha deciso di tutelare anche i diritti della maggioranza indù contro le pretese della minoranza musulmana che godeva dell’appoggio internazionale. Una scelta che potrebbe complicare le relazioni con gli Stati Uniti di Biden, nume tutelare del politicamente corretto. E, chissà perché, gli indù non sono politicamente corretti.
Resta la Russia, ottimo interprete della politica estera muscolare, molto meno efficace nel gestire rapporti di amicizia e collaborazione.
E poi c’è l’Europa. O meglio, ci sarebbe l’Europa se avesse una politica estera o una politica tout court. Proprio le scelte di Modi dovrebbero spingere a recuperare una radice comune che risale a tremila anni orsono. Ma con l’ignoranza abissale che caratterizza il Vecchio Continente, unita alla cancellazione delle radici, tutto questo si trasforma in un ostacolo invece che in un vantaggio.
In Italia, poi, l’incapacità del ministero degli Esteri si somma alla pessima gestione della comunicazione da parte degli imprenditori indiani. I casi di Arcelor Mittal (ex Ilva) o di Pininfarina Engineering sono stati gestiti malissimo non solo a livello industriale ma anche informativo. Scatenando inevitabili e comprensibili proteste da parte dei lavoratori penalizzati. Ma senza che qualcuno facesse notare che i coraggiosi imprenditori italiani si erano ben guardati da intervenire per salvare e rilanciare le aziende in crisi.
In Italia si può fare shopping di aziende senza spendere molto. Ma poi bisogna anche gestirle. Servono manager capaci, e quelli non mancano in India, ma serve anche la capacità di comunicare con la realtà italiana. E su questo fronte i ritardi sono evidenti. In direzione opposta, però, mancano i manager italiani in grado di far lavorare bene in India le aziende del nostro Paese. Le imprese italiane presenti in India sono poco più di 600, compresi gli uffici di rappresentanza e l’Italia è al quinto posto per le esportazioni dall’Europa, preceduta non solo da Germania, Gran Bretagna e Francia, ma persino dal Belgio.