Molti di noi vivono nella rassicurante illusione di essere diversi: di rappresentare l’Unico stirneriano. La verità vera, ahimè, è che ci si abitua a tutto e che quest’abitudine ci rende tutti uguali, ci schiaccia sul fondo dello staccio. Questo può anche avere conseguenze positive: stimola la fratellanza e il senso di comunità, ad esempio.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi, si limita a trasformarci in un mite gregge belante, che aspetta, brucando, che venga il pastore per la prossima selezione al macello. Il meccanismo è patente e tangibile. Chomsky lo spiegò felicemente nell’apologo della rana bollita: io, non so perché, preferisco quello delle pecorelle, ma il concetto non cambia.
A tutto ci si adatta, dicevamo: incredibilmente, una comunità riesce ad accettare l’inaccettabile, se le viene propinato un passettino alla volta. Una discussione, civile e partecipata, all’interno di questa comunità, paradossalmente, accentua la capacità di accettazione, nella chimerica idea che le cose si aggiusteranno da sole, che miglioreranno per una sorta di legge di Murphy al contrario. E gli anziani, i saggi, i senatori, sono, per solito, lo strumento, ascoltato e ubbidito, di questo adattarsi: sono gli inconsapevoli strumenti dell’oppressione.
Prendiamo gli Ebrei tedeschi, durante la dittatura hitleriana: erano una comunità coesa, intelligente, mediamente molto istruita, abituata a cavarsela, inserita nel tessuto statale, spesso benestante e altrettanto spesso reduce da una guerra combattuta con la sicura convinzione di essere Tedeschi. Ebbene, in questa comunità pochissimi compresero per tempo quel che si stava preparando contro di loro e, per loro fortuna, agirono di conseguenza: moltissimi, viceversa, non credettero possibile che un’ideologia, per quanto inumana, avrebbe potuto produrre Endloesung. Che si trattava, insomma, di esagerati catastrofismi.
Va detto, a loro discolpa, che immaginarsi qualcosa di tanto rivoluzionario sul piano criminale da imporre perfino una nuova fattispecie giuridica per giudicarla, non era così facile, negli anni Trenta del secolo scorso. Fatto si è che anziani e rabbini, intellettuali e artisti, proprio come le nostre pecore, supinamente in attesa del macellaio, si dissero: facciamo dei sacrifici, passerà anche questa. E vennero le leggi di Norimberga: la comunità ebraica si rassegnò. E venne la Kristallnacht, il Novemberpogrom, che evocava altre terribili stragi, il cui racconto, in epoche più serene, veniva fatto per spaventare i bambini: la comunità ebraica sopportò anche questo.
Poi, cominciarono a giungere, dall’Est, storie di terribili massacri: interi villaggi sterminati dagli Einsatzgruppen. Non può accadere qui, nella civile Germania, si dissero gli Ebrei. Ormai, fuggire non era più possibile: gli anziani cercarono termini di mediazione, una dolorosissima convivenza con i ghetti e le deportazioni, sempre sperando in un varco tra le nubi, in un intervento esterno, forse, del Papa, chissà. Come finì questo progressivo accettare nuove prove, che, oggi, con termine che, personalmente, detesto, definiremmo “resilienza”, purtroppo, lo sappiamo tutti: le speranze di un popolo, la sua “resilienza”, passarono per il camino.
Questo non per sventolare davanti al vostro incolpevole naso la minaccia di un nuovo genocidio: stavo per scrivere che, oggi, una cosa del genere sarebbe impossibile, quando mi sono accorto di essermi collocato sulle stesse incredule posizioni dei rabbini del 1935. Diciamo, perciò, che sarebbe molto improbabile. Quello che mi limito a postulare e su cui vi invito a una breve riflessione è che, poco alla volta, ci stiamo abituando a cose che, soltanto qualche anno fa, avremmo ritenuto intollerabili. Non strane o fastidiose: intollerabili.
Limitazioni alle nostre attività, alle nostre abitudini, alla nostra vita, assolutamente incongruenti, arbitrarie, confusamente stabilite, affastellate, smentite, approvate, in un carosello apparentemente senza senso.
In una nazione da anni guidata da personaggi privi di un’investitura rappresentativa e scelti a casaccio tra le categorie meno adeguate al comando, nel bel mezzo di una crisi economica e sanitaria di cui ci sfuggono l’origine, le reali dimensioni, perfino l’essenza, anziché pretendere ascolto, anziché porci quelle domande che, normalmente, il cittadino vigile e sveglio si pone, aspettiamo gli eventi: attendiamo pieni di “resilienza” che qualche giudice che nessuno ha nominato ci faccia sapere il nostro destino.
E guardiamo, ogni volta, uscire dal recinto, dopo la selezione, qualcuno di noi per avviarsi al macello: lo salutiamo belando. Artisti e pasticcieri, musicisti e ristoratori, maestri di sci e albergatori. Non toccherà mai a noi! Pensiamo, in un egoistico sollievo. E non capiamo che quel “noi” sono anche loro: che “noi” vuol dire un popolo, non una consorteria, non una categoria lavorativa. Un giorno, magari non domani e neppure dopodomani, qualcuno ci presenterà il conto: o, meglio, lo presenterà ai nostri figli, che abbiamo sempre cercato di proteggere, non accorgendoci del baratro in cui li stavamo cacciando. Allora, ci scopriremo tutti vittime, come gli Ebrei della Germania nazista. E potremo soltanto contare i sopravvissuti, come fecero loro.