I giovani colleghi di Electomagazine si possono, giustamente, entusiasmare per le esibizioni di Achille Lauro al Festival di Sanremo. E persino per Mahmood. Se quella roba strana può essere spacciata per musica. Poi, però, arriva al Festival Ornella Vanoni e chiarisce le differenze. Abissali. Non solo per la voce. Certo, Ornella ha avuto, sin dagli inizi, autori di una qualità inarrivabile per i nuovi interpreti. Soprattutto quando aurore ed interprete sono la medesima persona. E non si tratta degli autori di quando Ornella era già ai vertici del successo. E lo stesso vale per Patty Pravo.

Ma quando i miserabili epigoni si fingono simboli della trasgressione, ignorano completamente cosa sia una trasgressione vera, intima, personale. Ornella ha avuto una vita intensa, fuori dagli schemi. E Patty forse anche di più. Donne vere, che hanno vissuto. Che, ormai, hanno persino difficoltà a parlare, perché la trasgressione si paga a caro prezzo. Però quando la musica comincia, loro iniziano a cantare, scandendo quelle parole così difficili da pronunciare quando la musica non c’è. Donne che si sono confrontare con Stehler, bambine che chiacchieravano con Pound e Roncalli. Mica figli di papà che si fingono alternativi perché sono andati in tv con Littizzetto.
Dalle canzoni della mala alla storia con Gino Paoli, che non è il massimo dell’allegria, dal periodo craxiano alla voglia di diventare autrice. Ornella era su un altro livello. Capace di fregarsene se entrava in scena dopo aver concesso troppo spazio ai suoi gusti trasgressivi. Magari barcollante. Ma poi l’orchestra iniziava con i primi accordi e lei non era più Ornella ma diventava la musica stessa. Non barcollava più, non parlava in modo confuso ma cantava come sempre, in modo trascinante, impeccabile.

Professionale? No, non era professionalità. Era immedesimazione nella musica, era l’arte che la riempiva e la trasfigurava. Nulla, ma proprio nulla da spartire con tristi falsari della trasgressione costruita a tavolino dai manager.