Parlare a bassa voce… sussurrare appena , talvolta. Perché è stile, oserei dire arte, perduto…ha un suo fascino. Una sua, riposta, bellezza.Ed eleganza.
Tutti urlano, oggi. Sguaiati. Incapaci di modulare o toni di voce. Di cogliere le sfumature. Le note. Gli accordi armonici. Le pause.
Perché la voce è uno strumento musicale. Anzi, è lo strumento musicale. Il primo. E il più antico.
Leopardi lamentava che nessuno sapesse più conversare. Che tutti urlassero, per soverchiare le voci degli altri. Credo di averlo già raccontato. Portato della Rivoluzione francese. Del secolo delle ideologie. Dove cominciò a contare non più l’intelligenza di ciò che si diceva, ma solo la violenza con cui si parlava.
Oggi, urlare è la norma. I telefoni cellulari ne sono il paradigma. Tu stai chiamando qualcuno a Bangkok, non senti bene, o lui stenta a capire cosa stai dicendo. E tu cominci ad urlare. Sempre più forte. Un riflesso inconsulto, che nulla ha a che fare con lo strumento, con la tecnologia. Urli, come il primitivo (ma è mai esistito, poi? O è solo una nostra leggenda?) nella foresta. O nel deserto. Urli perché l’altro ti senta. Nella solitudine di una distanza ımpossibile da colmare.
Basta prendere un autobus. E ci si immerge in una vera e propria turba di voci. Un frastuono di frammenti di vite. Amanti che litigano. Amici che discutono di calcio, di donne, di lavoro. Affari ingarbugliati. Sfoghi. Attacchi di collera. E tutto, sempre, urlato. O, per lo meno, a voce troppo alta stentorea.
Non è, solo, un indice del degrado di quella che, un tempo, era considerate la Buona Educazione. È molto di più. La perdita delle sfumature. E le sfumature sono fondamentali. In tutto. Perché rappresentano la complessità e la varietà della vita. Quindi, la sua bellezza. Una successione di suoni senza sfumature è solo rumore. Frastuono. La colonna sonora della nostra modernità. Come intuì, agli albori di questa, Luigi Russolo. Con il suo “intonarumore” e, poi, il “rumorarmonio”. Perché il suono del nostro tempo è disarmonia. Rumori meccanici che si accavallano e confondono. E che non solo soverchiano la voce umana, ma la condizionano. La trasmutano in rumore fra i rumori. La rendono, anch’essa, qualcosa di meccanico. Un processo disumanizzante…
Parlare a bassa voce. Tra Amanti nella penombra di un vicolo. Come in un dipinto di Hayez. Parole che nessun altro deve, né può, udire.
Nelle luci soffuse di una Grande Biblioteca. Quel bisbiglio in cui le voci degli uomini presenti, e quelle, più antiche, dei libri si confondono. Divenendo un unico flusso di conoscenze e sapere.
Al tavolino di un caffè. Al San Marco di Trieste. Al Greco di Roma. Alle Giubbe Rosse di Firenze. La vita culturale, intensa e appassionata di un intero paese. Il tessersi della storia. Di una cultura. Con toni a volte vibrati, appassionati… Mai però dissonanti. Volgari.
E l’insegnamento, poi. Quello scolastico, dove il professore non dovrebbe dover alzare i toni, urlare, per soverchiare le strilla degli allievi. Dovrebbe parlare con voce bassa, profonda. Come spiega Quintiliano. Perché è l’autorevolezza riconosciuta che, di per sé, impone il silenzio. E l’attenzione.
È il parlare a voce bassa del Maestro. Aristotele che cammina fra i portici del Liceo. Ramana seduto sulla nuda terra, nel suo Ashram. La voce pacata di Basho, che recita un haiku, sotto i ciliegi in fiore.
E il canto di una voce femminile. Un sussurro appena, che giunge da lontano. Parole velate, che sembrano fremito d’ali di farfalla. O petali di fiori portati dal vento…