Ed anche Roberto Maroni se n’è andato. Protagonista di una stagione irripetibile della Lega Nord. Della Lega secessionista, federalista, aspirante rivoluzionaria. La Lega che poteva contare sulle idee di Gianfranco Miglio, ma anche sulle provocazioni intellettuali ed intelligenti di Gilberto Oneto. Una Lega con un capo assoluto come Bossi ma mai così inclusiva come in quegli anni. Perché la Lega di Bossi sarà anche stata una “costola della sinistra”, come sosteneva D’Alema, ma proprio Miglio e soprattutto Oneto erano sul fronte opposto.
Maroni no. Lui rappresentava l’ala sinistra. Moderatamente sinistra, a differenza di un Salvini che, all’epoca, guidava i giovani comunisti padani. E, da ministro degli interni, Maroni ottenne l’apprezzamento della sinistra. Magari non esplicito, ma reale. Così come ottenne l’apprezzamento di Berlusconi. Sapeva muoversi nelle stanze del potere, sapeva lavorare.
Non era, però, un capopolo. La base leghista non si entusiasmava per questo moderatismo che poteva assomigliare ad una mancanza di coraggio. Uomo di transizione, anche di compromesso. Perfetto per prendere in mano la Lega dopo gli scandali bossiani, del “trota” con annessi e connessi. Maroni e la ramazza per far pulizia.
Però, per ripartire, serviva altro. Serviva un Salvini non ancora trasformato in divoratore seriale di panini in diretta social. Non era più il tempo di Maroni, neppure nella versione portata alla ribalta dalle imitazioni di Crozza. E poi, nel momento di difficoltà della Lega salviniana, per Maroni era arrivata anche la malattia contro cui ha combattuto sino alla sconfitta finale.