Anni fa, non molti, in una classe mi occorse l’incidente di usare la parola “negri”. Non era voluto. Nessun intento provocatorio. Semplicemente stavo parlando delle popolazioni e culture dell’Africa Sub-Sahariana. Quella che i geografi arabi definiscono Bilad al-Sudan. La Terra dei Neri. Negri, usando lo spagnolismo considerato, sino a ieri, definizione antropologica precisa. E corretta. Ma oggi…
Beh, lessi sguardi di riprovazione, sorpresa. In un paio di ragazze addirittura di orrore… e una esclamò
“Ma prof!”.
Cercai, allora, di spiegare che il termine non aveva, in sé, nulla di offensivo. E parlai di Leopold Sengar Senghor, presidente del Senegal e più grande poeta africano. Che cantava la bellezza della Donna Negra. L’orgoglio della Negritudine. Perché le parole, di per sé, non sono offensive. È l’animus con cui le utilizziamo, talvolta, che offende…
Non credo di essere riuscito a convincerli. Non tutti di sicuro. Ma, forse, a qualcuno avrò dato uno stimolo…a pensare.
Perché, poi, la questione si riduce solo a questo. Pensare.
Certo, il legame tra pensare e parlare sembra evidente. Scontato. Come si potrebbe parlare se non si pensasse?
Eppure non è così semplice.
Perché la parola non è un, semplice, strumento, se vogliamo un codice di comunicazione. Gli animali non parlano. Eppure comunicano benissimo. Tra loro. Ed anche con noi, se abbiamo una minima capacità di ascoltarli. È una comunicazione non verbale. Fatta di gesti, versi, toni di voce…
La parola è, invece, suono articolato. Che esprime concetti. Anche astratti. Che dà forma a ciò che si prova, certo. Emozioni, sensazioni, paure, sentimenti… Ma anche ad astrazioni. Idee. Teorie.
Difficile dire quando l’uomo cominciò a parlare davvero. È uno dei quesiti fondamentali della paleontologia. Che continuamente elabora teorie. Tutte campate in aria, purtroppo. E, soprattutto, indimostrabli. Perché, ricorrendo a Popper, nessuna di queste è, mai, “falsificabile”. E, quindi, non possiamo affermare che sia vera. Che sia scienza. Resta ipotesi. Di conseguenza ciò che troviamo spiattellato come verità nei libri di storia scolastici, vale le fantasie di Howard sull’Era Hyboriana. Né più, né meno.
Comunque, la domanda chiave dovrebbe essere un’altra. Noi pensiamo davvero le parole che utilizziamo? Oppure ripetiamo meccanicamente ciò che altri hanno pensato per noi, e ci hanno instillato nel subconscio? Nel qual caso non saremmo molto di più di un merlo Indiano…
Riflettere su questo, potrebbe aiutarci a capire un fenomeno contemporaneo. Non totalmente nuovo, certo, ma che oggi è divenuto parossismo. E ossessione. La pretesa di cambiare le parole nel loro significato e addirittura nella loro forma. Per adattarle ad una qualche ideologia astratta.
Fenomeno che assume i toni della farsa, quando le vestali della, cosiddetta, parità di genere, pretendono che si dica “dottora” e non più dottore, “architetta” (sic!), ingegnera e avanti di questo passo. Crassa ignoranza della grammatica storica. E anche di quella elementare. Altrimenti saprebbero che vi sono parole che non hanno, né possono avere, la declinazione di genere. E questo deriva dal fatto che l’italiano viene dal latino. E in latino c’erano maschile, femminile, neutro. Capito? Neutro. Ovvero senza distinzione di genere. E non vi è alcun riferimento alle teorie transgender. Qui si parla di grammatica. Non di…beh, lasciamo perdere.
Il problema, però, non sono le fisse di femministe ormai coperte di ragnatele, e di pseudo intellettuali da sdraio di Capalbio. Ma che, in un modo o nell’altro, queste “idee” facciano breccia nella maggioranza. Divengano uso. Imponendo il cambiamento delle parole dal punto di vista formale. E il loro snaturamento come concetti. E la folla, la massa subisce. Perché, in realtà non pensa. Accetta, e ripete a pappagallo i pensati altrui. Imposti come mode, dai media e dai molteplici strumenti di persuasione. E manipolazione.
In fondo, il problema è vecchio. Tanto che trova la sua radice nel Medioevo. Nelle interminabili discussioni, nella pace ombrosa dei chiostri, fra Realisti e Nominalisti.
Ora, questa non è una lezione di filosofia. E credo di aver già abusato della pazienza. Mi limiterò a ricordare che la disputa, perché di questo si è trattato, originava dal neoplatonico Porfirio. E dai commenti, ovviamente, ad Aristotele… Ma cominciò ad accendersi con Anselmo d’Aosta che sosteneva che le parole sono già insite nelle cose (e, ovviamente, in mente Dei) e Roscellino. Che sosteneva che le parole sono solo flatus vocis. Convenzioni. Prive di sostanza. E la cosa andò, poi, avanti sino a Tommaso d’Aquino. Per il quale parole e cose coincidono. Sono reali. E basta così. Chiusa ogni discussione. O quasi….
Erano discussioni dotte. Raffinate. Riguardavano gli Universali. Il senso del mondo. La Creazione. Dio e l’uomo.
Oggi il livello, sinceramente, mi appare alquanto più basso. I nuovi nominalisti non hanno, certo, l’intelligenza e la capacità di argomentazioni di un Roscellino. Si limitano a sostenere assurdità, con arrogante prosopopea. Con proterva ignoranza.
Però la folla preferisce accettare per buoni questi pensati rozzi e privi di sostanza alcuna. Sempre meglio che provare a pensare davvero.
E allora…vai con architetta, senatora, muratora, avvocata, fabbra, militara, amanta…e, per parità, con autisto, géometro, vetrinisto,..e anche analfabeto. Maschile di analfabeta. E idioto. Maschile di idiota…