John Keats scrisse che la vita di un uomo è una allegoria continua. Della quale, però, ben pochi riescono a decifrare il mistero.
Era un animo romantico, il povero Keats, che morì a soli venticinque anni, a Roma. Consunto da vari mali, tisi, sensibilità esacerbata. E una disperata passione per tale Fanny Brown. Che però cercava una solida sistemazione economica. Non un poeta.
E lui, Keats, era poeta grande. Chiunque abbia fatto un liceo appena decente conosce certo la famosa “Ode su un’urna greca”, che noi professori ci ostiniamo a mettere in relazione coi Sepolcri foscoliani. Mentre non c’azzeccano nulla, come direbbe quel fine critico di Tonino da Montebisacce….
Però Keats è ben altro. Leggete non solo le altre Odi, ma l’Endymion e l’Hyperion e capirete.
Una sensibilità esacerbata, certo. Che gli permetteva, però, di cogliere la Bellezza. Nel senso assoluto. Quindi non qualcosa di semplicemente piacevole alla vista o ad altri sensi. Qualcosa che va totalmente al di là del gusto estetico personale – di cui aveva spesso discusso, a Londra, con l’amico Hazlitt – e che si fa viatico di una esperienza sovrasensibile. Nel senso etimologico del termine: che trascende la percezione sensoriale. Che va oltre.
Di qui questa intuizione. La vita non è che allegoria. Solo che non ce ne rendiamo conto. Anche perché i pochi che hanno almeno sentito parlare di “allegoria” – ormai a scuola si insegna altro, la parità tra molteplici e multiformi sessi, e il distanziamento mascherinato – ne hanno, comunque, un’idea astratta. E confusa, come tutte le astrazioni.
L’allegoria, così come la intendeva il giovane poeta, è, invece, il codice del mondo. E della vita. Così come aveva appreso dalla appassionata lettura di Spencer e delle sue storie di fate. E come, probabilmente, ritrovò, negli ultimi momenti romani, nella Commedia dantesca.
Perché la vita è, in questa ottica, un insieme di Quadri Animati. Scenari di una grande Commedia. O una pupazzata, come dirà poi Pirandello. E la chiave per comprendere, per decifrare questo tessuto allegorico in continua mutamento è saperne cogliere la Bellezza. In ogni attimo. In ogni particolare.
Cosa non facile. Non tanto per le brutture e le tragedie in cui ogni esistenza incorre inevitabilmente. Nel tragico vi è, comunque, grandezza. E quindi bellezza. L’Edipo Re di Sofocle lo dimostra. Se ci pensate una storia aberrante. Parricidio. Incesto. Una stirpe maledetta. Eppure ha un fascino che supera la prova dei millenni…
Quello che, invece, ottunde e acceca è il grigiore. La monotonia del quotidiano. L’assenza di passioni. Di intensità.
Il lasciarsi esistere in una deriva incolore, dominata solo da timori e tremori. Per rubare qualcosa anche a Freud.
Tuttavia Keats, se ci pensiamo, ebbe esistenza non solo breve, ma anche grama. Povera in tutti i sensi. Nulla di memorabile, in apparenza. Se non rare amicizie. Ed incontri. Ma la sua poesia coglie la bellezza in tutto. Il grigiore e la tristezza si risolvono in una fantasmagoria di luce, colore, forme. Dal quotidiano risorge, prepotente, il mito. Fate meravigliose e antichi Dei, eroi e demoni si rivelano dietro al tessuto della vita ordinaria. Al grigiore che ci soffoca. E ci avvolge. Ma che è, appunto, solo allegoria. Che andrebbe non subita, bensì… decifrata.
La chiave di volta del senso della nostra esistenza. Della bellezza, e della vita vera, ci dice Keats. Basterebbe…. guardare ogni cosa con altri occhi. Capaci, come erano i suoi, di coglierne la meraviglia.
1 commento
Io non conosco l opera di Keats, non ho letto le sue Odi,Endimione e Iperione,ma ho amato un breve cenno alla sua vita ascoltato su Radio 3,anni fa, mentre chi raccontava si trovava dinanzi la tomba del poeta, nel cimitero acattolico in Roma.L epitaffio è noto: Qui giace uno il cui nome fu scritto sulla acqua.
Io non lo sapevo,mentre conoscevo la casa, qui riportata, dove soggiornò, che dà sulla scalinata,in Piazza di Spagna.L epitaffio voluto dal poeta ci dice tutto e rientra in quella bellezza cui qui si fa riferimento,quel qualcosa che ci ferisce e ci arricchisce, qualcosa che dà forma a noi stessi, giacché,senza di essa,non siamo vivi, bensì solo involucri,esistenze fatte di bisogni primari, mentre sono i desiderî che ci fanno cogliere il sovrasensibile e che non si appagano, sebbene nell’ attimo di una visione ci concederebbero di morire soddisfatti(è il senso del famoso detto VEDI NAPOLI E POI MUORI).Fu nello stesso periodo che mi capitò di vedere un film sulla relazione tra Keats e la Brown e, pertanto,voglio soffermarmi un momento su quella descrizione secca e quasi monolitica della Brown.Il film è certamente molto romanzato e ci dà , forse, uno sguardo tutto al femminile della regista Champion,credo(vado a memoria e spero di non sbagliare),ma la figura di Fanny che viene poco a poco tratteggiata, si allontana completamente dalla brevissima descrizione a lei rivolta nell’ articolo.
I colori,la fotografia, l intensità, la scelta di alcune scene che ricordano quadri, insieme a stralci di lettere e versi, non permettono di lasciare il film a metà(detto da una che di romantico, nel senso più scontato,non ha nulla a che fare).
La morte colse il poeta lontano da lei.Un amore non consumato nell’ atto,per le convenzioni dell’ epoca, una lontananza non voluta,ma imposta, poiché a lei non fu permesso di accompagnarlo,in quel soggiorno nell’ Urbe, necessario alla salute.
Lei morì con lui, nell’ anima.
Sì tagliò i capelli, indossò un abito nero.
E,nelle tasche,i versi dell’ amato, quelli che aveva voluto leggere(lei inizialmente donna legata alle mode e ai merletti), e quelli a lei dedicati.
Per sempre FULGIDA STELLA .
BRIGHT STAR.