Dopo oltre 20 anni, Luni editrice ha voluto ripubblicare il “Curzio Malaparte” di Giuseppe Pardini che, a differenza della biografia di Giordano Bruno Guerri “L’arcitaliano” (Bompiani, 1980), verte sull’aspetto prettamente politico dello scrittore pratese, ricostruendone l’ideologia come “più lineare e più solida” di quanto invece comunemente si giudichi, ravvisando nella vicenda malapartiana non pochi elementi di incertezza, ripensamento e contraddizione.
Uniti, peraltro, a una ricostruzione auto-biografica spesso ai limiti dell’agiografia, tesa a farsi passare quale un perenne perseguitato, vittima dei poteri, emarginato per le proprie idee coraggiose e controcorrente. Va detto anche che tali elementi, sulla cui valutazione etica potremmo discutere, concorrono a fare di Malaparte uno scrittore ancor più interessante, poiché proprio sull’ambiguo limite tra vero e falso, dato di cronaca e invenzione letteraria, si gioca il successo delle sue opere più note, quali “Kaputt” e “La pelle”.
Il saggio di Pardini poggia sul vasto Archivio costituito dal pronipote dello scrittore Niccolò Rositani Suckert, incluse le raccolte documentarie edite in dodici volumi dalla sorella di Curzio, Edda Suckert Ronchi.
Malaparte ebbe tra i suoi mentori Italo Balbo e il suo collaboratore Nello Quilici, ma nonostante il sostegno del quadrunviro (o forse anche per questo, se ne consideriamo i burrascosi rapporti con il Duce) la fortuna fascista dello scrittore fu altalenante. Ebbe la collaborazione al Resto del Carlino prima, la carica di capo redattore al Mattino poi e infine la prestigiosa direzione de La Stampa, da dove fu licenziato, fu condannato al confino e poi prosciolto, riparò sempre più spesso a Parigi dove si avvicinò alla fronda del regime che sognava la “successione” a Mussolini, pur nell’ottica della continuità del sistema fascista. Ma anche in tale contesto non assunse un comportamento lineare e trasparente e subì una denuncia per “attività antifascista”, mantenendo però una certa benevolenza dall’alto, Telesio Interlandi intercedette per lui con Galeazzo Ciano, per cui riprese a collaborare sotto pseudonimo al Corriere della Sera. Arrivò poi, ad agevolare le cose, il fidanzamento con Virginia Agnelli, vedova di Edoardo.
Nel dopoguerra manifestò una vera e propria fobia per il comunismo, “Io non posso credere che gli italiani abbiano perso la testa a tal punto da voler fare la fine della Cecoslovacchia”, ma dopo quello che lo stesso saggio definisce un “opportunistico avvicinamento”. Riprese il suo espatrio in terra francese, muovendo una decisa critica alla invadenza dei partiti nella cosa pubblica e al “fascismo degli antifascisti” che danno l’idea di quanto incisive e lucide fossero le sue anticipazioni intellettuali e però di come fossero sempre proclamate con toni stentorei, roboanti, quelli che rendono le sue correzioni di rotta poco credibili, ancorché in teoria legittime per un uomo che pensi e parli con onesta aderenza al mutare delle cose: “Qualunque partito politico è composto dai peggiori di una nazione, è la somma del cattivo gusto, dell’ignoranza della nazione. Gli artisti debbono disprezzare la politica e disprezzare i politici tutti, senza distinzione di partito”.
Malaparte si ama senza limiti, probabilmente crede davvero all’immagine che costruisce di se stesso, per esempio quando scrive: “tutto nasce dal fatto che io mi sforzo continuamente d’essere (non di parere) un italiano come tutti gli altri e non ci riesco”. Versi come quelli, celeberrimi, della Cantata dell’Arcimussolini, “Spunta il sole e canta il gallo o Mussolini monta a cavallo”, sono poco opinabili per un personaggio passato dall’adesione – Piero Gobetti lo definì il “più forte teorico del fascismo” – all’antifascismo, con sospetto tempismo, dopo la fine del regime. Ma Pardini non crede al trasformismo: “Un camaleonte dunque Curzio Malaparte? No”. Egli “non ebbe un ruolo di particolare rilievo all’interno del fascismo, fu anzi un personaggio ai margini del regime anche quando ricoprì incarichi di responsabilità in giornali molto importanti […] Deluso dal fascismo, lo fu anche dal dopo fascismo”. L’accusa di volta gabbana sarebbe quindi “troppo legata al “personaggio”, mentre dobbiamo considerare “Malaparte fuori dalla leggenda e dal modo di vivere anticonformista spesso creati ed esibiti a bella posta da lui stesso”.
Negli ultimi anni, lo scrittore intrattenne una altalenante collaborazione a Il Tempo di Renato Angiolillo, per il quale fu inviato speciale a Mosca e in Cina, invitato ufficialmente dal Governo della Repubblica Popolare, da cui inviò anche articoli apparsi anche nel settimanale comunista Vie Nuove, tramite l’interessamento di Davide Lajolo. La missione comportò infatti un avvicinamento al Partito comunista, scaturito dal moto di simpatia che il contatto con la civiltà millenaria cinese provocò. Purtroppo, appena giunto in Cina si aggravò un tumore ai polmoni che lo portò alla fine, “tra le attenzioni e tra concessioni di tessere di partito (del PRI, del PCI) e conversioni religiose al cattolicesimo”, avvenuta dopo una lunga agonia il 19 luglio 1957.
La cultura italiana del Novecento deve indubbiamente confrontarsi con la figura di Malaparte e con la sua opera, a prescindere dalla valutazione delle sue opinioni talvolta a forte rischio di banalità, come l’auspicio sul sistema politico “efficiente, giusto, ben ordinato e ben amministrato, retto da leggi eque, moderne”. Nel suo peregrinare lo scrittore si avvicinò tra l’altro alle posizioni della sinistra moderata e si impegnò direttamente nelle consultazioni amministrative del 1956 a Prato, nella lista del Partito repubblicano. D’altronde, ha ragione Pardini, è anche da questa contraddittorietà che nasce “l’aspetto irrazionale, metafisico e metapolitico del pensiero di Malaparte, autentica pur se non unica base dei suoi lavori”.