Parto sempre da un principio fondamentale in qualunque confronto con l’Altro: Conosci il nemico, conosci te stesso, e la vittoria sarà tua. La sottovalutazione di questo postulato porta a sconfitte clamorose e ad uno dei peggiori atteggiamenti: dare sempre la colpa all’Altro ed evitare di migliorare se stessi. Il secondo principio, per numero ma non per importanza, è il famoso verso di Friedrich Hölderlin “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva”, quell’opportunità che niente ha a che vedere con l’insopportabile resilienza.
Detto ciò, ho seguito con attenzione molti interventi di Michela Murgia e, pur deprecando certe sue esternazioni fuori luogo come quella nei confronti di Battiato, è indispensabile chiarire alcune sue pericolosissime qualità.
Perché mentre un Berizzi mi risulta simpatico ma scontato, con la sua fissazione antifascista speculare all’onnipotenza narcisistica del bambino, quindi innocuo perché palesemente noioso; mentre uno Scazzi ha la stessa carica di simpatia di un calcolo biliare; per non parlare di Parenzo che è fastidioso come una ragade anale, Michela Murgia è intellettualmente seduttiva.
Ha una ipnotica competenza dialettica, un indubbio spessore culturale, una innegabile capacità di intrattenimento, una indiscutibile abilità da giocoliere di parole, visto anche lo studio approfondito e dimostrato sul linguaggio e la comunicazione.
Se dovessi definire dei ruoli storici e filosofici per darci un tono un po’ su, direi che la Murgia è Gorgia ed io Platone, anche se Lei sicuramente ribalterebbe i personaggi.
Lei, Murgia/Gorgia sfoggia la retorica della quale è vischiosamente impregnato il politicamente corretto. Lei è una eccellente elaboratrice di parole persuasive, una encomiabile manipolatrice semantica, con la finalità di creare una disposizione affettiva verso la democrazia e la dialettica, il tutto confortato da un’apparente bontà d’animo e da una esteriore tolleranza.
Io, come Platone, non sopporto l’enfasi espositiva, la contraffazione dei significati dei vocaboli, mi è intollerabile la pratica adulatoria del pubblico, così come mi appartiene l’idolatria di una costruzione mentale settaria.
La Murgia presenta delle interessanti diapositive confrontando due termini contrapposti, ad esempio: a sinistra “avversario”, “popolare”, “responsabilità”, “dissenso”, mentre a destra “nemico”, “populista”, “colpa”, “disordine”, determinando chiaramente alla prima la categoria del bene democratico e alla seconda il male totalitario.
Alla fine, finisce con lo scivolare sulle stesse bucce di banana che Lei stessa ha disseminato nel suo percorso oratorio. Il massimo della sua concettualizzazione – che è poi l’Ombra inconscia degli antifascisti – si esprime in un evento pubblico quando afferma: “Stalin ne ha fatti fuori un po’…a dimostrazione che il fascismo è trasversale”. Insomma, l’apoteosi della contraffazione retorica.
A margine, segnalo un’altra disarmante situazione. Durante un incontro in cui avverte della pericolosità delle parole che possono diventare armi mortali – sempre riferito alla destra, ovviamente – è in duetto con Luca Sofri, figlio di quell’Adriano Sofri, direttore di Lotta Continua, che il 1° ottobre 1970 metteva Calabresi disegnato alla gogna con l’auspicio che pagasse care le sue colpe.
Ecco perché amo Michela Murgia. Perché attraverso i suoi video ho compreso la sua pericolosità rispetto ad altri suoi tanto beceri quanto grossolani sodali. E perché attraverso questa pericolosità, inquadrabile oltre il velo confusivo della retorica, si scopre l’opportunità di diventare fascisti soltanto analizzando contesti e parole, una volta vinto il dettato ipnotico e sanificati dalla manipolazione dialettica.