Animula, vagula, blandula… con questo, lieve, gioco di parole, un epigramma, dicono che si congedasse dalla vita Publio Elio Traiano Adriano. Semplicemente Adriano, imperatore di Roma. Figura inquieta e suggestiva. Soldato e artista, si dilettava di pittura. Architetto. A lui si deve, per altro, quel capolavoro che è la sua Villa alle pendici di Tivoli. Raffinato Esteta, ed abilissimo politico. Poeta, di fatto la figura di maggior spicco tra i Poetae Novelli. La cerchia che interpretò in latino il gusto ellenizzante dello stesso imperatore. E di tutto il secondo secolo.
Questa non è, però, una lezione di letteratura latina. E neppure un pezzo sulla, pur affascinante, figura di Adriano. È, invece, questa “animula” con quel che segue, che mi attrae. E non da oggi.
È diminutivo “animula”. Oserei dire quasi un vezzeggiativo. Adriano la tratta con la gentilezza con cui si tratta un gattino. Con affetto. Ma senza identificazione. Perché l’anima è leggera. E vagabonda. E l’imperatore, morente, la vede come tale. Ospite e compagna del corpo. Ma transitoria. Destinata ad andare altrove. A tornare a vagare. Un senso di impermanenza che ben poco può risuonare a noi, uomini (cosiddetti) moderni, che ci identifichiamo totalmente con la nostra psiche. Che la consideriamo come un blocco massivo. Tutt’uno col corpo. E chiamiamo questo complesso “io”. Non riuscendo a concepire altro al di là del nostro confine. Del nostro limite psico – fisico.
Adriano si sarebbe compreso perfettamente con un seguace del Buddha. D’altro canto, molte delle scuole filosofiche ellenistiche risuonano di echi orientali. Si esprimono in greco, certo. Ma sono altra cosa.
Questa immagine di un’anima leggera, che vaga, quasi gironzola senza una meta precisa. Priva, quasi, di un’ancoraggio. Trascinata dal vento delle passioni. Dalle tempeste degli istinti… Questa animula con la quale sempre ci identifichiamo, ma che Adriano, in punto di morte, vede per quello che è. Come dicevo, ospite del nostro Corpo. Compagna nel percorso della vita. Ma altra dal corpo. E altra dal nostro Spirito. Dal nostro “io”… Beh, questi versi leggeri, nella loro musicalità quasi leziosi, mi sembrano la chiave per comprendere non una filosofia, o una dottrina misterica, che pure vi si riflette… piuttosto il senso del divenire dell’esistenza. Che non è determinato, per gran parte del suo percorso, dalla coscienza. Ovvero da ciò che crediamo di sapere e comprendere. Non dal pensare razionale, per quanto lucido, affilato e sottile possa essere. Nè tanto meno da ciò che chiamiamo volontà. Che resta una sorta di abisso oscuro, arduo da sondare. È questa animuccia instabile e girellina che ci condiziona. Illude e disillude con “favole belle”, per richiamare D’Annunzio. E non a caso, o per mero sfoggio erudito. Leggete con attenzione “La pioggia nel Pineto”, e vedrete…
Ci illlude con amori che ci sembrano eterni. E, subito dopo, li fa svanire come brina al primo sole.
Ci trasmette paure insensate, facendoci vivere in affanni e angosce prive, ad essere oggettivi, di senso.
Ci convince che il nostro corpo, di cui è momentanea ospite, possa e debba vivere in eterno. E di qui, inevitabile, ci porta al terrore della morte. Che nulla ha a che vedere col corpo in sé, legato solo alle leggi di natura. E nulla anche con la coscienza. Che, come diceva Epicuro – saggio troppo spesso frainteso – non concepisce la morte. In quanto quando ci sono Io non c’è la morte. E quando c’è la morte, non ci sono Io.
Ma è l’anima, o meglio questa animula leggera che, in buona sostanza, ci inganna. Ci dà la solenne fregatura… E così ci risulta difficile, quando non impossibile, distinguere la pula dal grano. Ciò che è transitorio, da ciò che dura. O che, addirittura, è eterno.
Ci inganna, ma Adriano la tratta con fare amichevole. In fondo, ci permette anche esperienze belle. Ci dona emozioni estetiche. Ci fa godere dei piaceri che giungono dai sensi come dalla mente. È un’ospite. Una compagna. Ma non la nostra padrona…