Vivere ardendo, e non sentire il male…
Così Gaspara Stampa. La più intensa poetessa italiana. Una delle poche voci autentiche in quella melassa manierestica che è il petrarchismo.
L’alta Gasparra, Saffo novella – come la chiama Benedetto Varchi nell’epicedio inviato al Della Casa – aveva pienamente ragione. Ardere non fa sentire il male. Non che le passioni anestetizzino dal dolore. Anzi… Sovente ne sono la causa. Ma l’ardore è altra cosa. Va molto oltre la passione.
Di passione si brucia. Ma la passione consuma e si consuma. Resta poi la cenere, che serve solo come concime al campo. È il destino di quelli che chiamiamo, ordinariamente, amori. Con la minuscola. E rigorosamente al plurale.
Gli amori sono molteplici. E mutano con rapidità. Perché soggetti allo scorrere del tempo. All’invecchiamento. All’erosione.
L’ardore è altro. È un fuoco che viene dal profondo. Che necessita d’essere evocato. E, certo, vi è sempre qualcosa – un incontro, uno sguardo, un volto, un’idea – che fa da innesco. Tuttavia, preesiste. È lì, celato, ignoto. Perché dall’ignoto proviene.
Per lo più si vive senza sperimentarlo. Ignorandone l’esistenza. E ci si lascia trasportare da passioni e passioncelle più o meno transitorie. Più o meno durevoli nel tempo storico. Comunque, alla fin fine sempre effimere.
Il continuo mutare delle relazioni umane ne è la riprova.
Quante volte si è detto a qualcuno “ora e sempre”? E quante volte, dopo un po’, l’amore si è mutato in abitudine, in pigrizia, in noia ? O peggio… Gli avvocati divorzisti esistono per questo…
Se dura, o sembra durare, è spesso solo per abitudine, dicevo. O per paura di riconoscere il proprio fallimento. Di rimettersi in gioco. Di rischiare .
È così anche per le idee. Massimo Scaligero diceva ai giovani idealisti, pieni di passione e sogni, che andavano a trovarlo: vi aspetto alla soglia dei trent’anni.
Quando, appunto, ideali, sogni, illusioni vengono messi alla prova dalla realtà. O da quella che ci abituiamo a considerare realtà. Grigia, massiva, immodificabile… Il minimo comun denominatore su cui si fonda il vivere comune. La nostra società. La nostra esistenza.
E questo minimo comun denominatore è la paura. La paura di non farcela. Di non riuscire. Di non essere “adeguati”, per usare un’insulsa espressione tanto in voga. E allora si cerca di adeguarsi. Di essere “come gli altri”. Gli ideali vengono riposti in un cassetto polveroso della memoria. Vanno bene per quattro chiacchiere tra amici in una sera d’inverno. Si accettano i compromessi. Nella vita privata come in quella pubblica. Un amore ridotto ad abitudine. Un po’ di sesso occasionale. La carriera. Si nasce rivoluzionari, si diventa moderati. Espressione che serve solo a mascherare il vuoto. La meschinità di un’ esistenza immiserita.
Sul fondo, sempre e comunque, la Grande Paura. Quella di morire.
Paura che determina le nostre esistenze. Le ossessiona, man mano che procedono gli anni. E ci spinge ad abdicare ad ogni altra cosa. Alla nostra dignità. A noi stessi. Lo squallido spettacolo di questi mesi ne è la riprova.
In sostanza vogliamo solo continuare ad esistere. Senza chiederci il perché. Senza una ragione. Infelici, attaccati a un chiodo… ma qui. Solo questo conta.
L’ardore è altro. Viene da un altrove remoto. E altrove ci conduce. È destino. Amor Fati, se vogliamo.
Un incontro. Uno sguardo. E si accende. Per non spegnersi mai. Consuma la parte più vile della nostra anima. La purifica. Lo stesso desiderio raggiunge il calor bianco. E si fa altro.
Ti solleva al di sopra del contingente. Della paura. Del male e della morte…
Questo vuol dire quel verso di Gaspara Stampa. Verso che non si può spiegare. Solo sperimentare. Per destino.