Viviamo nell’epoca delle certificazioni, autocertificazioni, attestati, dichiarazioni… Ludi cartacei – definizione, in verità, coniata per sprezzo delle elezioni, che però, almeno in Italia, oggi non si fanno più, o si cerca di non farle…. E che sono state, di fatto, sostituite da questa sempre più sfrenata libido certificatoria… E non è cosa proprio recente. Anche se la Grande Minaccia, ovvero la Grande Menzogna e le coorti di esperti al servizio del Conte Zio hanno portato al parossismo la tendenza già presente…
Ad esser sincero nella Selva Oscura cartacea in cui si siamo perduti, ve n’è una che mi ha sempre, particolarmente, colpito. La, famosa, famigerata “esistenza in vita”.
In sostanza, con questa, tu dichiari, sotto la tua responsabilità , di essere “esistente”. Non solo, ma anche che questa esistenza è “in vita”. Ergo, visto l’unica alternativa semantica, che non esisti in morte. Affermazione che, di per sé, sarebbe una contraddizione logica non da poco.
È, però, una certificazione che ha molti impieghi. Perché dimostra che tu esisti. E che sei vivo.
Prova di quanto possa essere contorto il genio burocratico. E di quanto tempo, energie, e pensiero si sprechino in cose di alcuna sostanza…
Comunque questo, balzano, certificato stimola, oltre all’inevitabile ilarità, anche una qualche speculazione… se non proprio filosofica, che sarebbe pretendere troppo, per lo meno… beh, diciamo esistenziale. Per restare in tema.
Perché, alla fine, la necessità di dimostrare di esistere, agli altri e a se stessi, non è poi cosa da banalizzare.
È non è necessario tirar fuori Mattia Pascal e tutto il ciclo di personaggi, Serafino Gubbio, Vitangelo Moscarda, con cui Pirandello indaga la dissoluzione, o meglio la liquefazione dell”io “apparente.” Questo sì sarebbe voler fare filosofia…
Il dimostrare la propria esistenza è, invece, cosa ben più ordinaria e concreta. Non risponde alla domanda “Chi sono io” che Kipling ritrova nella mente del suo, giovanissimo e avventuroso, Kim. Non è la meditazione di Ramana Maharshi. Bensì una semplice esigenza di, potremmo dire, grossolana psicologia.
Facciamo un esempio. In questi giorni ci stiamo preparando – si fa per dire – alla riapertura delle scuole. E lasciamo perdere come, se, in che condizioni… Ma è un fatto che riaprire dovranno, se non altro per esigenze di babysitteraggio… Chè dello studio non gliene importa un tubo a nessuno.
Ora, in questo frangente, assolutamente nuovo ed atipico, gli insegnanti sono stati presi da una collettiva ed inusuale frenesia. Riunioni a getto continuo. Collegi docenti, consigli di classe, dipartementi disciplinari… E commissioni per la didattica a distanza, per la riapertura, per il distanziamento… E chat, discussioni infinite, documenti redatti e approvati e emendati… In tutta la mia lunga, vita nella scuola mai visto tanto entusiasmo. Tanta alacre profusione di impegno…
Tutto online però. Tutto, o quasi, virtuale. Perché di far scuola, di andare in classe con gli studenti si parla poco o nulla. Piuttosto si studiano nuove metodologie, nuove strategie… Basta con la lezione frontale. Superata! Dobbiamo sfruttare questa grande opportunità per impadronirci delle nuove tecnologie… Diventeremo migliori…
Pochi si pongono la domanda su cosa, e quanto davvero riusciremo ad insegnare. Pochi cercano di ricordare che se l’insegnamento si è sempre impartito in un certo modo, docente di fronte ai discenti, sin dai tempi degli scribi egizi, una ragione ci dovrà pur essere… Quelli, come me, sono i brontosauri. Specie in via d’estinzione nella garrula scuola dell’Azzolina…
Però mi chiedo una cosa… Perché tanta voglia di fare anche da parte di celeberrimi battifiacca, di apologetici del dolce far niente, di coloro che anelano ad un perenne lockdown e che sperano in un perenne limbo dedito allo smart working?
Per una sola ragione. Per dimostrare di esistere. A se stessi, prima ancora che agli altri. Perché quella che trascinano è una non esistenza. E tutto questo fare, astratto e inutile, un modo di convincersi di esistere. Di avere un senso. Ed un’utilità.
Tuttavia possono, forse, così, convincersi di esistere. Ma non di essere vivi. Perché, in tutto questo, vita non c’è n’è. Solo astrazione. Portata alla sua forma più estrema dalla paura, imperante e dominante. Le mascherine, esibite come prova del proprio essere cittadini ligi e responsabili. I distanziamenti. L’alienazione di ogni rapporto sociale. Il più ottuso servilismo. Tutto questo non è essere vivi. Solo, cadaveri che camminano.
Per cui, volendo forse si potrebbe esibire un certificato di esistenza. Ma non di esistenza in vita. Quello sarebbe un clamoroso, conclamato falso .