Forse nessun altro genere letterario ha saputo rappresentare la realtà, o meglio quella che percepiamo come realtà, come il teatro. E soprattutto il teatro comico. Certo, la poesia, in tutte le sue declinazioni, vola più alto. E scende più in profondità. E il romanzo permette un discorso molto più esteso, una tessitura più complessa, una maggiore capacità di riflessione… come sostenne il Manzoni, che abbandonò, appunto, il teatro per convertirsi al Romanzo. E, nel suo caso, fu scelta giusta. E felice.
Ma ciò non toglie che il teatro abbia un’immediatezza, una capacità di coinvolgere e stravolgere tutta sua peculiare. Ti fa pensare, certo, ma al contempo ti trascina dentro la scena. Ti prende e ti rispecchia.
Ora questo potrebbe portarci ad una lunga digressione sulla funzione catartica della tragedia. Che non a caso nacque dai Misteri. Ma non mi sembra il caso, per quanto il tema sia una delle mie (molte) fisse. La nostra non è epoca di tragedie. Gli Dei si sono ritratti nei loro intermundi. E la realtà che ci circonda non ha nulla della magnificenza e dello splendore proprio del tragico. È commedia, di uomini, omuncoli e quaquaraquà… Quando non una farsa. Più o meno oscena.
Più volte ho pensato, e scritto talora, che ci vorrebbe un grande genio comico per raccontare questo “anno zero” di un mondo, e di un’italietta in particolare, che si è ritrovato da tanti sogni effimeri precipitato in un’incubo. Un incubo privo di sostanza, e ridicolo, soprattutto.
Chissà, pensare a Moliere è quasi scontato. Caustico come pochi nel tratteggiare vizi e difetti. Ma come si muoverebbe oggi, cosa mai potrebbe scrivere l’ottimo Poqueline quando i Tartuffi e i Malati Immaginari sono diventati la normalità, e dettano legge agli altri? E si arrogrno saccenti il monopolio della ragione e delle ragioni. E non ammettono il diritto fondamentale dell’uomo. Quello di esprimere dei dubbi. E il dubbio, per chi ha letto Cartesio, è il fondamento del pensiero. Chi non dubita, non pensa. Ma oggi dubitare è peggio di qualsiasi crimine. Si passa per pazzi. Asociali. Untori.
Forse ci vorrebbe Plauto. Il genio delle commedie frenetiche. Delle battute folgoranti. E sovente triviali. Perché capace di cogliere la sostanza, greve e volgare, del vivere dietro al formalismo ipocrita.
Non Terenzio, troppo filosofico. Non Goldoni, troppo bonario nel giudicare la natura umana…
Alla fin fine, poi, sempre a Pirandello mi tocca ritornare. Al primo Pirandello, in questo caso, quello della “corda pazza”. Del Berretto a sonagli. La follia voluta, ricercata, perseguita come unico antidoto contro la barriera della rappresentazione comune. Imposta e dominante. Un modo per infrangere la gabbia di specchi deformanti in cui siamo stati rinchiusi. E dove molti, troppi sembrano compiaciuti di sopravvivere…
Ma forse non si dovrebbe andare così lontano. Né volare così alto. Basterebbero Franchi e Ingrassia a rappresentare mirabilmente e in modo esilarante il popolo delle mascherine e le sue paure…. O Boldi e De Sica, ultimi eredi di una millenaria tradizione comica..
E poi mi piacerebbe sentire il Principe de Curtis rispondere, a chi lo invita a tenere le distanze, ad esser diligente e cauto, con quel suo tono inimitabile
“Ma mi faccia il piacere!”
Ecco, appunto. Ma fatemi il piacere…