Chissà che ne penserebbe… Che ne penserebbe dei parroci che somministrano l’Eucaristia con i guanti di lattice e la mascherina… che poi, essendo monouso, vengono gettati nella pattumiera. Inevitabilmente con microscopici frammenti di ostia che vi restano appiccicati. Microscopici… ma comunque frammenti del Corpo di Cristo. Per chi vi crede. E lui, don Camillo, indiscutibilmente vi credeva. Credeva con una fede semplice, che nulla sapeva di sofismi teologici ed altri arzigogoli intellettuali. Ma che, proprio per questo, era profonda. Viscerale.
E chissà che direbbe dell’amuchina al posto dell’acqua santa. Del Papa che dà l’Urbi et Orbi in streaming. Delle chiese chiuse per mesi per paura del virus… Lui che manco la grande alluvione aveva fatto sloggiare dalla parrocchia, e diceva messa con l’acqua torbida e fredda sino alla vita…
Che direbbe di Vescovi che fanno i sociologi, di Papi che parlano solo di migranti e problemi politici… Dei preti pedofili, protetti e giustificati dalla Curia…
Probabilmente tirerebbe giù il Crocifisso dall’altar maggiore, e chiederebbe a Cristo stesso il permesso di mettersi a tirar mazzate…
E Cristo sono certo che glielo concederebbe, stavolta, quel permesso. E lo farebbe, inevitabilmente, con la voce del grande Ruggero Ruggeri. Come nel film di Duvivier, che ebbe il coraggio di girare ciò che tutti i registi italiani, De Sica in testa, avevano rifiutato. Per pregiudizio ideologico. O solo per paura di sfidare il predominio culturale comunista.
Guareschi, il padre di don Camillo e Peppone, non era uno scrittore semplice. Strapaesano, certo, nel solco di una tradizione tutta italica che dal Selvaggio di Maccari si riannoda con Faldella e Fucini. E affonda le sue radici più remote nel Sacchetti e nella novella del trecento. Ma semplice no. Il linguaggio, vivo e immediato, inganna. La semplicità è voluta. Frutto certo di un particolare temperamento, ma anche di una precisa ricerca.
Guareschi ci descrive un’Italia dalle forti passioni. Onesta e schietta, anche se violenta. I suoi personaggi hanno fede. Credono. Nel sogno comunista Peppone e compagni. In Dio, don Camillo.
Guareschi credeva in Dio. E in una tradizione fatta di cose semplici. La famiglia, la Patria, l’amicizia.
Era decisamente avverso al comunismo. Ma non ai comunisti. In alcuni di loro riconosceva un retroterra popolare che era anche il suo. Un idem sentire. Una tradizione culturale. Peppone ne è l’incarnazione. Simpatica e burbera.
Oggi, non si riconoscerebbe più in questa Italia. Non per ragioni prettamente politiche. Piuttosto per la mediocrità dilagante e imperante. A tutti i livelli.
Ve lo vedete voi Peppone presiedere il consiglio comunale con la mascherina? O il Brusco e il Bigio e lo Smilzo scaricare l’app. Immuni per paura di un virus? Era gente tosta, che aveva vissuto due guerre. E una lunga guerra civile poi. Che è stata, per certi versi, anche peggio…
E don Camillo poi… La sua era sì una fede da uomo semplice. Ma, forse proprio per questo, forte e coraggiosa. Il suo cristianesimo era ancora quello di San Carlo Borromeo, che curava senza paura i malati di peste. Il cristianesimo di padre Cristoforo, non di don Abbondio.
Peppone non si riconoscerebbe in questa “sinistra” asservita ai grandi poteri finanziari. Così come il fascista Dario Camoni non capirebbe questa, cosiddetta, destra preoccupata più per una manciata di contagi che per il destino dell’Italia.
Ma soprattutto lui, don Camillo, si ritroverebbe spaesato. Nella Chiesa bergogliana non avrebbe cittadinanza. E se ne andrebbe. Portando con sè ciò che resta di una tradizione e di una storia secolare.
Insieme, naturalmente, al grande Cristo dell’altare maggiore…
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