Ritorno al bosco. Il Trattato del Ribelle di Ernst Jünger. Una visione, non un saggio. Nel, lontano, 1951 vede il divenire delle cose, con una lucidità che, ancora, non è stata compresa. Perché il Ribelle jungeriano non va interpretato, come continua ad esser fatto, in chiave politica, storica… Non nella dialettica tra destra e sinistra, tra sistemi socialisti e liberali… È ben altro. Un archetipo, o meglio un mito proiettato verso un futuro ancora lontano. E che oggi, però, vediamo compiutamente realizzarsi.
Il Ribelle è l’individuo che non si piega alla macchina dello Stato Mondiale. Che non si lascia ridurre a ingranaggio. Spersonalizzare. Che non rinuncia al suo volto. Che non accetta di conformarsi. E che perciò dà fastidio. Prima ancora che a chi gestisce il potere, a tutti gli altri. A quelli che hanno accettato. Per comodità, interesse, paura. E che non possono tollerare la sua diversità. Perché li mette di fronte alla loro vergogna.
Certo, ancora vivo l’eco della guerra, il Ribelle del ’51 è un guerrigliero. Non ha deposto le armi. L’Anarca, Martin Venator di Eumeswil, del 1977, è invece colui che, con disprezzo, esce dal mondo. Ritorna nel bosco. Nella selva. Ritrova se stesso…
Questo non è un saggio sull’opera jungeriana . E quindi studiosi ben più dotti di me dovranno tollerare la forzatura. È invece un articoletto sulla necessità del mito. Di una narrazione diversa da quella dominante, in cui siamo, ormai, imprigionati. E il Ribelle, e l’Anarca, mi sembrano un buon punto di partenza…
Già… perché tornare al bosco appare oggi quanto mai necessario. Vitale, anche se si deve continuare a vivere nella Città del Condor. Che è la città dei morti. E a subire le sue leggi inique.
È un ritorno che equivale ad una presa di coscienza. Come il risveglio dal sonno (o dall’incubo). Dante nella Selva Oscura che si rende conto all’improvviso di aver perduto “la verace via”.
Ma il risveglio incute paura. La Selva è fitta, e piena di minacce. E la solitudine assoluta. È necessario trovare il coraggio di alzare gli occhi. E le forze per cercare di ascendere al monte. Ma questo può costare molto caro. Affrontare le tre “fiere”. L’ultima soprattutto. La Lupa. Macilenta. Famelica. Laida. Che si accoppia con tutte le altre bestie. E che con altre ancora, sempre più mostruose, si accoppierà nel futuro.
Innumeri le interpretazioni dell’allegoria. Ma mi interessano poco. Oggi la Lupa è la paura. Che nasce dal più squallido egoismo. E che ci divora. E impedisce l’ascesa…
È la via dell’anacoreta. O, meglio ancora, dello yamabushi. Lo sciamano guerriero della Tradizione nipponica. Una sintesi fra culti arcaici, shintoismo, buddhismo esoterico e taoismo. Esce dal consesesso sociale. Entra nel bosco. Lotta con i demoni e le belve. Scala la Montagna. Infine giunge al di là del ponte celeste. In quello che potremmo definire come un Paradiso.
Il Ribelle, oggi, deve destarsi e prendere, come Dante, coscienza della Selva Oscura. E della minaccia. E deve uscire dal coro. Dal consesso, ormai inumano, che lo tiene prigioniero.
Miti, narrazioni, come dicevo. Ma ogni epoca, anche questa, ha bisogno di miti. Come antidoto alla finta realtà, massiva e oppressiva, in cui ci troviamo immersi…