Strana estate…giunta all’improvviso. Quasi di soppiatto. Potrei dire inattesa, anche se il calendario non muta. E il ciclo astronomico si volge sempre su se stesso… Ma, in effetti, ci ha colto quasi alla sprovvista. Troppi mesi prigionieri in casa. E, soprattutto, delle nostre paure. Dalle quali, palesemente, i più non riescono ad evadere.
D’altro canto, che estate è con insalubri mascherine, viscidi guanti di lattice, ridicoli “distanziamenti” – orrore della neolingua imposta dai Media del regime sanitario – nei parchi, nei luoghi di ritrovo, sulle spiagge?
Non è estate. Non quella, per lo meno che la mia generazione ricorda. Con nostalgia che, oggi, si fa più che mai acuta…
L’estate dei juke box e dei falò in spiaggia… dei ghiaccioli e dei castelli di sabbia… e del gioco della bottiglia… altro che distanziamento…
Comunque questa è la nuova estate. L’estate di questo Anno zero. L’estate che non sarà più come prima. Come ci ripetono ossessivamente le varie Capua e i Burioni di turno. Come ci minaccia dalla sua rocca di Palazzo Chigi il Conte Zio. Come ci ingiungono i Media orchestrati (sic!) dal genio partorito dal Grande Fratello…
È l’estate del nostro scontento…e arridaje co’ sto Shakespeare, me direbbero i miei coatti ormai in perenne vacanza. Col cervello. Oltre che con il corpo…
Dell’estate, però, c’è già l’afa. La luce abbagliante del giorno. Il calore che cuoce, lentamente, la vegetazione. Le foglie e l’erba, fino a Maggio di un fresco verde smagliante, stanno già assumendo toni più cupi… Presto volgeranno in sfumature dorate. Poi ruggine. E cominceranno a disseccarsi. Il vero profumo dell’estate è una dolcigna afa di morte. Pesche mèzze e miele guasto… Anche se mi sono sempre chiesto da dove D’Annunzio ha tratto questa immagine. Il miele non è mai guasto…
Ecco, questi sono pensieri estivi. Oziosi. Chè la mente, sul farsi della sera, tende a vagare quasi disincantata dal corpo. Trascinata fuori. Dalle sensazioni, colori, sapori… Profumi.
Poi scende la notte. La tenebra estiva è diversa. In qualche modo brilla. Non per le stelle. È l’oscurità ad essere lucente. Nero lucente. Ed attraversata da improvvisi lampi. Senza tuoni o senza pioggia. Lampi di calore, mi spiegò mio padre, una sera, in cui erano particolarmente Intensi. Ed io li guardavo abbagliato.
Lampi d’estate. Vi è un romanzo di Woodhouse che porta questo titolo. Uno della saga del Castello di Blandings. Lord Clarence Emsworth, l’imperatrice, l’enorme maiale da esposizione sua unica passione. Suo fratello Gally, il viveur. Una pletora di sorelle arcigne, nipoti scapestrati, fanciulle di luminosa bellezza ed evanescente intelletto. Maggiordomi saccenti e imperiosi. Nobili eccentrici e ignoranti… La quintessenza dell’umorismo inglese. Lettura privilegiata delle mie estati di molti anni fa…
Woodhouse ha il dono, raro e impagabile, della leggerezza. Non è mai volgare. E neppure stupido. Anche il grottesco non gli appartiene. L’assurdo è solo accennato. Mai esagerato al parossismo come nel nostro, grande, Achille Campanile. Piuttosto, l’umorista inglese osserva, con bonaria acutezza, i difetti della natura umana. Le eccentricità, e li mette in rilievo. Senza esasperarli, ma illuminandoli con un linguaggio funambolico, dove l’iperbole è regina.
La sua forza di persuasione sta nel saper sorridere della vita. È l’erede dei grandi commediografi. Di Menandro e Plauto. Di Goldoni, anche.
Ci fa vedere la vita come una interminabile commedia. Senza mai volgerla in farsa. O, peggio, in tragedia. Il suo Jeeves, l’acuto maggiordomo che cita Shakespeare e sbroglia le intricate matasse sentimentali in cui si
impiglia il suo, sciocco, padrone, il giovane Bertie Wooster, deriva da Pseudolus. E discende dal Ligurio della Mandragola machiavellica. Ma sorride di più. È più lieve. Volutamente effimero.
Come i lampi d’estate, appunto.