Vi è uno specchio nero nel Castello del Buonconsiglio a Trento. Uno specchio di pietra. Non riflette nulla. Emana, però, una sua luce Oscura. Fu voluto da Bernardo Clesio. Il più grande Vescovo Conte di Trento. Un umanista. Un dotto. E non solo quello, probabilmente.
Al Buonconsiglio vi sono molte opere mirabili. L’edificio è una perfetta sintesi di leggerezza e forza. Ma lo Specchio è qualcosa di particolare . Un enigma. E una sfida.
Che significa uno specchio di pietra, nero, che non riflette immagini? Che rimanda solo una fosca luce? Che senso ha, oltre alla bellezza, indiscutibile , dell’oggetto?
Forse, anzi senza forse, ce lo dice la scritta, incisa sulla cornice. Nosce te ipsum. Gnosis s’auton. Latina e greca.
Ce lo dice. Ma non rende la cosa più chiara.
Cosa significa conoscere te stesso specchiandosi in una tenebra che non rimanda immagini? Forse il mistero della identità umana. Il limite della conoscenza, ordinariamente solo riflesso, e per di più deformato, della realtà. Illusione di essere ciò che vediamo negli specchi normali. Il grande dubbio di Laudisi nel “Così è se vi pare” pirandelliano…
Guardare in uno specchio nero è come contemplare un cerchio nella sabbia. E sentirsi sprofondare nel vuoto. La domanda di Ramana Maharshi, uno dei pensatori più Intensi della cultura indiana moderna. La domanda del Kim di Kipling.
Chi sono io? Per lo più la risposta che ci diamo è ovvia. Primitiva. Scusandomi con i cosiddetti primitivi, quelli autentici, che erano, e talvolta sono ancora, capaci di ben altra esperienza dell’essere. Mentre noi, i moderni, ci identifichiamo con il nostro corpo. O meglio con il riflesso di questo in uno specchio. Quanto di più illusorio e ingannevole…
E questo identificarci è la fonte di tutte le nostre paure. Delle nostre sofferenze e angosce. Perché se siamo questo e solo questo, il nostro è, comunque vada, un destino tragico. Leopardi, Cioram, sempre loro, lo indicano con disperata lucidità. E il Zarathustra di Nietzsche trasforma quella stessa disperazione in una risata liberatoria. E in una danza nel vuoto.
Ma ordinariamente non riusciamo a cogliere la tragica grandezza del nichilismo. Il nostro è un materialismo meschino. Volgare. E temiamo di perdere quell’immagine riflessa negli specchi. Di divenire fantasmi. Di precipitare nel nulla.
Perciò temiamo la morte. Tanto da non riuscire neppure a concepirla. E ne rifiutiamo l’idea stessa. La nascondiamo dietro una coltre di nebbia. Spesso sotto un cumulo di letame.
Così, per schivare non la morte, ma il pensiero della morte, diventiamo incapaci di vivere. Fantasmi rovesciati. Corpi privi di anima. E di intelletto. Che sopravvivono in esistenze vuote. Aggirandosi nel vuoto, estetico ed etico, della città moderna.
Bernardo Clesio aveva il senso della bellezza. E della magia. Forse non era solo un dotto. Forse era un alchimista. E un mago. Come Paracelso. Come Agrippa…
Certo sapeva che lo specchio oscuro può mettere l’uomo davvero di fronte a se stesso. La prima parte dell’Opera è, appunto, l’Opera al Nero. Da li si dovrebbe partire. Sfidando la propria paura. Che è solo oscurità. Vuota di sostanza.
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