Siamo usi paragonare lo scorrere del tempo ad un fiume. Nelle cui acque è impossibile immergersi due volte. Perché mutano di continuo. Scorrono. È il lascito di Eraclito. L’oscuro per eccellenza, che depose, non a caso, la sua opera ai piedi dell’Artemide di Efeso. Opera in parte perduta. In altra gran parte non compresa ancora. Eppure quel “Panta rei” ha determinato la forma mentis dell’uomo occidentale. La nostra forma mentis. Gli anni che fuggono irrefrenabili. Il rimpianto di Orazio. Il “possente errore” della nostra civiltà, per dirla con Emanuele Severino. Che, non a caso, guardava a Parmenide…
Eppure in Erasmo trovo, ora, un’altra definizione del tempo. Una definizione che, d’improvviso, mi appare più illuminante. Il tempo è uno stagno. Acque ferme. Morte. Lo è, in particolare, per la maggioranza degli uomini, che nulla temono più del mutamento. E che vogliono convincersi che le cose possano restare sempre uguali. Perché questo dà loro sicurezza. Li convince che nulla mutando, potranno permanere perennemente nello stesso stato. Ovvero continuare ad esistere. Non importa come. Non importa se bene o male. Ciò che conta è non morire. Perché la morte è il grande cambiamento.
Erasmo non è un pensatore sistematico. Non ha elaborato una complessa e articolata dottrina. Non ha cercato, o meglio preteso di spiegare l’universo. Piuttosto procede per aforismi. Battute fulminanti. Illuminazioni. Come farà, dopo di lui, Nietzsche.
È con una battuta, un’immagine dice molto più che con lunghi, ponderosi, trattati. Sconvolgendo la rappresentazione ordinaria. Il consueto modo di guardare al mondo e alle cose.
Il tempo, per gli uomini, non è un fiume. Bensì uno stagno. E questo ci dice molto. Moltissimo, di noi stessi e del nostro tempo.
Come dicevo all’inizio, siamo usi rappresentare il tempo come la Storia. Con la maiuscola. Facendone una sorta di idolo. Di feticcio. E non siamo neppure coscienti che tale determinismo, prima che da una cattiva lettura di Hegel o di Marx, deriva da Lutero. Dal suo discorso sul “servo arbitrio”. Che Erasmo contestò
E addirittura irrise. Causa della rottura fra i due.
Tuttavia questa visione storicista e ottimisticamente progressista, viene contraddetta dalla natura umana. Che è, appunto, stagnante. Perché teme il mutamento. E ne abbiamo costantemente la riprova. Oggi più che mai. I mutamenti sono sempre dei traumi. Veri o indotti artatamente. Ma comunque percepiti come tali. Gli uomini li subiscono. Non li comprendono, e meno ancora li governano. E subito cercano di adattarsi alla nuova realtà. Cercano di tornare nel loro, placido e illusorio, stagno…
Da mesi ci sentiamo ormai dire che nulla tornerà come prima. Che dobbiamo abituarci ad un nuovo “stile di vita”. Se vogliamo continuare a vivere…
Questa la neppure tanto velata minaccia che ci viene costantemente propinata, attraverso media servili, da politici, economisti, scienziati veri o presunti, starlette, vecchi cantanti imbolsiti, saccenti intellettuali, teorici della paura, speculatori … Tutti col panico celato dietro le grottesche, e inutili, mascherine. O, peggio, col ghigno soddisfatto di jene pasciute…
Ma tutti costoro non ci stanno invitando a cambiare. All’opposto, ci spingono sempre più nel nostro stagno. Uno stagno ancor più maleodorante, cupo, mefitico. Perché sono acque morte. Dove il tempo sembra non scorrere. E alle quali ci adattiamo nella speranza che, così, ci salveremo.
La più assurda e stolta delle speranze. Perché il Tempo, Cronos, divora i giorni e gli anni. E li consuma. E tutto, alla fine muta. Nascondersi nella melma dello stagno, e giungere come oggi persino ad amarla tale melma , non evita i mutamenti. Non evita la morte. Ti rende soltanto incapace di vivere…
Photo credits by Maria Infantino