“Ogni tanto è necessario astrarsi dalla modernità” scrive Rilke.
In apparenza la frase di un poeta. Che amava l’antico, quella classicità che prende di continuo nuova forma nella sua opera. Le Elegie duinesi. I Sonetti a Orfeo. Il mondo classico rivive in lui, nel suo scrivere, senza necessità di citazioni esplicite. Perché Rilke era un classico, non un classicista. Non imitava esteriormente. Riviveva. Che è tutt’altra cosa…
Ma non è di Rilke e della sua poesia che voglio parlare. O meglio, ragionare con queste righe.
Astrarsi dalla modernità… Implica l’evasione dal tempo presente. Ovvero dalla percezione ordinaria di quella che siamo usi chiamare, e considerare, realtà. L’unica, la sola. In cui siamo imprigionati. E che rende astratto, aleatorio tutto il resto. Riduce il passato a erudizione. Il futuro a fantasia. È la modernità l’unica cosa che conta, che determina le nostre esistenze.
Ma attenzione : la modernità non è il presente. Noi non percepiamo il presente, fugace incontro di un attimo di passato e di uno di futuro. Il problema di Faust.
Noi viviamo la modernità. E la modernità non è che una rappresentazione. O meglio, una narrazione comune condivisa. Ovvero un mito. Il mito della modernità, in cui viviamo avvolti. Come nella tela del Grande Ragno del “Ritorno del re” di Tolkien.
È una tela di pensieri, rappresentazioni, suggestioni tessuta con infinita pazienza nel tempo. I ragni sono, per loro natura, pazienti. E proprio per questo, predatori pericolosi. Che non danno via di scampo alle loro prede.
Difficile dire quando, il ragno della modernità, ha cominciato a tessere la sua tela. Non c’è una data precisa. I grandi mutamenti epocali non hanno un giorno. È una fanfaluca che l’evo moderno inizi con Colombo che “scopre” l’America. È la coscienza delle cose che muta. E i grandi cambiamenti fluiscono nel tempo…
Alcuni elementi. La fine della rappresentazione tolemaica, e l’affermazione della visione copernicana. Non siamo più il centro della Creazione, ma una pallina da ping pong che ruota vorticosamente nel vuoto, insieme ad altre palline da ping pong. Come ha scritto Ernst Jünger.
L’affermazione dei “valori”. Discutibili, contrattabili. Mutevoli. E l’eclissi della Virtù.
Il concetto di progresso. Ovvero della storia come una linea retta, immodificabile. Che rende convinti che ciò che è oggi, è, sempre e comunque, meglio di ciò che era prima. Il dottor Panglosse di Voltaire. Le magnifiche sorti e progressive, irrise da Leopardi.
Il mito della corporeità materiale, di una, impossibile, perfezione meramente fisica. L’illusione di poter vincere la Morte. E la negazione, conseguente, che Vita e Morte non sono che due volti della stessa medaglia. Che porta all’ossessione per la salute. E alla schiavitù morale e materiale che ne consegue. Di cui stiamo sperimentando le (forse) estreme conseguenze…
E la relativizzazione della bellezza. Ovvero la sua negazione. La perversione del senso estetico, che è poi perversione della natura. Abbandonarsi all’abisso della psiche, prigioniero negli anfratti oscuri di una corporeità malata e deteriore. La Fosca di Iginio Ugo Tarchetti.
Rilke percepiva con lucidità poetica tutto questo. E molto di più. Perché capace di cogliere la bellezza come qualcosa che dà forma ai corpi. Ma non appartiene alla corporeità fisica. È altro. È oltre…
Astrarsi dalla modernità non significa rifugiarsi in aleatorie fantasie.
Piuttosto, disincantarsi. E guardare tutto da… fuori. Da un altrove ove si è, almeno per un momento, liberi dalla rappresentazione comune dominante.
Liberi dalla tela del Grande Ragno.