I paracarri restano fermi, gli uomini camminano. Ovvietà di cui, troppo spesso, ci si vuole dimenticare. E che invece spiega molto del mondo. Di quello passato, innanzitutto. E, per ricaduta necessaria, del presente. E dell’ipotetico futuro che ci attende.
La storia, o meglio le storie – ché non credo ad una linea retta fatale ed univoca, bensì ad un contorto intreccio di narrazioni – è comunque narrazione di uomini e popoli che camminano. Navigano. Si spostano. O, come va di moda dire oggi, migrano. Lo spostamento, il nomadismo è la condizione originaria della nostra specie. Altrimenti non ci saremmo diffusi su tutta la Terra, e continueremmo faticosamente a sopravvivere in uno spazio ristretto. Una “riserva”. Sita dove, ben poco conta. Non mi interessa, qui, parlare delle contrapposte tesi dei paleontologi sulla culla della stirpe umana.
Il nomade, poi, diventa sedentario quando può. Ma riprende ad essere nomade quando le condizioni di vita lo pressano e costringono. È un’alternativa costantemente presente nei recessi oscuri della nostra anima. E Chatwin lo intuì con poetica lucidità.
L’autoctono, l’aborigeno non esiste. È solo chi è arrivato in un luogo in precedenza. E vi si è adattato. Per quanto aspre possano essere le condizioni di vita e la natura. Non a caso Tacito pensava che i Germani fossero autoctoni. Nati e vissuti sempre in quelle terre. Sembrava impossibile al romano, abituato al clima mite del Mediterraneo e a terre fertili, che qualcuno si potesse essere spostato per andare a vivere in quel clima freddo, in quelle lande inospitali… Ma sappiamo che, per una volta, si sbagliava…
I popoli si spostano. Migrano. E non vi sono ostacoli che li possano fermare. Non muri che rendano impossibile la loro invasione, quando le condizioni di partenza la rendono inevitabile. Non vi riuscì l’impero Romano, che dal II secolo in poi difese disperatamente il suo grande Limes, dal Reno al Danubio, contro la pressione delle genti germaniche. E poi dei popoli slavi, turchi e mongoli che pressavano dalle immensità dell’Asia…
Non vi riuscì l’Imperatore Qui Shi Huang, con la Grande Muraglia…
Non vi riusciranno gli odierni muri edificati ai confini col Messico. O improponibili e fantasiosi blocchi del Mediterraneo…
Le ragioni delle migrazioni sono sempre state molteplici. Non solo la fame o le guerre. Ma anche l’attrazione esercitata da luoghi ove sembra che gli uomini abbiano vita più facile. Siano, in certa misura, felici. Anche se, su questo, l’Islandese di Leopardi avrebbe molto da ridire.
I barbari goti, i vandali che si affacciavano sul Danubio e sul Reno vedevano le ubertose colture del Mediterraneo. La promessa di una, per loro inusuale, prosperità.
Oggi i Media fanno vedere ai popoli del sud del Mondo, dell’Africa soprattutto, un nord, un’ Europa ricca, dove la vita è facile. Il paradiso in terra. E poi c’è la demografia. Ne ho già parlato. Popoli vecchi, con indici demografici sotto lo zero. Come noi. Pronti a deprimere le nascite e a comprimere i pochi giovani per tutelare l’egoismo dei vecchi. Le loro paure. I loro privilegi. Ne abbiamo, purtroppo, il quotidiano esempio. E la crisi del COVID ha solo reso più palese questa situazione.
E popoli giovani. Esuberanti di vita ed energie. A migrare sono loro, i giovani. I più forti, avventurosi, affamati. Non i deboli. È sempre stato così. E sempre così sarà.
Anche per questo – lo dico per inciso – è stupido, volutamente stupido, tutto questo allarmismo montato artificialmente sui migranti che ci porterebbero la nuova ondata pandemica. Sono dei pezzi di marcantoni sani come pesci. Certo, portano molti problemi. Ma non quello sanitario…
L’invasione, chiamiamola così, è iniziata lentamente. E la cosiddetta “società multietnica”, temuta o vagheggiata, c’è già da tempo. Il mio fruttivendolo si chiama Ahmed, non Mario. E il pesce lo compro da Masir. Il mio barbiere è cinese. E potrei continuare…
Certo, questi sono esempi di felice integrazione. Altro termine in voga, che ha ben poco senso. Ma non negano i problemi. I disagi. I conflitti sociali. Soprattutto nelle periferie disagiate, nelle banlieue metropolitane sempre pronte ad esplodere. È facile essere per l’accoglienza e contro ogni “razzismo” quando si vive in una villa con piscina e camerieri filippini. Più difficile quando si deve convivere con i nuovi arrivati negli spazi ristretti delle affollate borgate. Le abitudini, gli usi cozzano ineluttabilmente. Anche gli odori, i profumi dei cibi sono diversi. Provate a vivere con un vicino indiano, che affumica di curry e altre spezie le scale del palazzo…
Può piacerci o meno, ma il processo migratorio in atto è inarrestabile. E sta conoscendo una progressiva accelerazione. Una marea montante. Che non si può fermare. Ma che, forse, potrebbe essere governata. Se vi fosse l’intelligenza per governarla. Non eviterebbe i problemi, ma potrebbe, almeno, smussare gli angoli.
Solo che questa intelligenza latita. E si contrappongono due stupidità.
“Tutti fuori, rispediamoli a casa loro!”
“Venite, venite tutti. Vi apriamo le braccia!”
La prima è impossibile. La seconda masochistica e ideologica. Comunque, verranno. La realtà è questa.
Forse, è una speranza, riusciremo, in futuro, a governare la cosa. E vi saranno tanti Ahmed, tanti Masir. Bravi ragazzi, con voglia di fare. Ma non sarà indolore. Dobbiamo saperlo.
E le nostre città, i nostri paesi cambieranno.
Chiedersi se in meglio o in peggio sarebbe anch’esso profondamente stupido. Oltre che inutile.