Leggo, quasi per caso, un frammento di una poesia incompiuta di Ferdinando Pessoa. Pochi versi che Brunello De Cusatis – il più grande e intelligente lusitanista italiano – ha tirato fuori dal, leggendario, baule del poeta. E tradotto con acuta sensibilità. È un testo che illumina in certa misura il mistero della, cosiddetta, personalità multipla di Pessoa, il gioco di Ortonimo e innumerevoli eteronimi, con il quale ha, di fatto, creato da solo un’intera letteratura.
Mi colpisce il primo verso
“Io sono Antologia”
Pessoa non usa mai le parole a caso. Seguendo la vulgata comune e più banale.
Antologia, in greco antico, significa “scelta di fiori”. Di qui l’uso per indicare la selezione delle opere migliori di uno o più autori. Opere poetiche soprattutto, ma non solo. Celebre, fra tutte, l’Antologia Palatina. I migliori epigrammi greci da l’età arcaica alla Bisanzio del X sec.
Da Meleagro sino a Paolo Silenziario. Passando persino per Platone.
Tuttavia Pessoa cambia, sottilmente, il significato del termine. Dice: Io sono antologia. Che è ben diverso dal parlare della: mia antologia.
Perché non è il libro che conta. L’antologia, il florilegio, è l’io stesso. Dell’uomo che si esprime in poesia. Ed è, appunto, l’io che si riflette in una molteplicità di persone. Di maschere.
Viene in mente Pirandello, ovviamente. Che con il poeta di Lisbona presenta affinità profonde. Di pensiero e, forse ancor più, di sensibilità. Ma Pessoa va oltre le maschere pirandelliane. Oltre il grande dubbio sull’essere uno, nessuno o centomila. Per lui è l’io stesso ad essere antologico. A contenere una turba di personalità, di individui convinti di essere qualcosa di unitario. Qualcosa di semplice. Mentre…
Mentre non è una questione letteraria. Un gioco intellettuale, o riservato a intellettuali astratti. Al contrario il poeta ci parla di una esperienza che è adombrata nelle filosofie, chiamiamole così, dell’India. Nell’esperienza del “Chi sono io?” di cui parla, in uno dei passi più suggestivi di “Kim”, Kipling. E che è alla base dell’insegnamento d Ramana Maharshi. Che andrebbe conosciuto, leggendo magari gli scritti di quell’inquieto viaggiatore che fu Paul Brunton…
Ma io non voglio parlare di filosofia, yoga e quant’altro. Solo notare, partendo dal verso di Pessoa, che la persona umana è complessa. Molteplice… se vogliamo plurale. Ed è la cosa che, spesso, ci limita nei rapporti con gli altri. E, a ben vedere, anche e soprattutto con noi stessi. Perché vediamo di chi, ad esempio, amiamo – o crediamo, o vogliamo amare – solo un volto. Quello che è più corrispondente alla nostra rappresentazione. A come vorremmo l’altro /l’altra fosse. E restiamo stupiti, urtati, feriti allorché i casi della vita ci mettono di fronte a realtà ben diverse. Diverse, antitetiche, ma ugualmente vere.
Ogni essere umano è, in fondo, un’antologia. La poesia, quando è grande come quella di Pessoa, lo rivela. Purtroppo, spesso non siamo capaci di leggerne tutte le pagine. Operiamo una selezione impropria. Per fare un esempio è come prendere il Liber di Catullo. E leggere solo le liriche in cui esalta la bellezza del suo amore per Lesbia. Escludendo la raffinata costruzione intellettuale dei Carmina Docta, e gli epigrammi che rasentano, e sovente travalicano i limiti dell’osceno. Quello che si fa, normalmente, a scuola. Perdendo la verità di Catullo. La sua ricchezza. E ciò che Lesbia era davvero per lui….
Antologia personale. Ben pochi hanno il coraggio di vedere la propria. Ancor meno quello di leggere, sfogliare (e amare) l’antologia di qualcun altro.
Ma il buon giardiniere non si può occupare solo di un fiore, di una singola pianta, di un cespuglio. Deve amare tutto il Giardino. Nella sua complessità. La rosa e l’ortica. Il giunco e il rovo. Deve curarli tutti. Perché se ne deperisce, intristisce e muore una parte, tutto il giardino, alla fine inaridisce.