Costruire la “Città dell’uomo“. Questa era la visione di Adriano Olivetti. Nella prima metà del 900, il giovane ingegnere eporediese ricevette in regalo dal padre, Camillo Olivetti, una grande fabbrica. La prima fabbrica in Italia che costruì macchine per scrivere. Regalo inconsueto, nella forma, non c’è che dire. Nella sostanza, un’incalcolabile sfida. Portata avanti con impegno costante e con un’intensa attività intellettuale legata all’architettura, all’urbanistica, alla sociologia e all’editoria, che ha portato alla celebre architettura olivettiana.
Ivrea, diventata nel 2018 Patrimonio Mondiale dell’UNESCO (riconoscimento ottenuto con il titolo “Città industriale del XX secolo“), per qualche decennio fu percepita come la piccola Atene del Canavese. Proprio qui l’architettura olivettiana è più evidente. Lo sviluppo dell’azienda, infatti, ha “disegnato” vaste aree del paesaggio urbano e industriale. Ma, in poco tempo, il successo dell’azienda si è esteso in tutto il mondo. Tracce importanti dell’architettura olivettiana si trovano anche altrove in Italia e all’estero.
Eppure, non è solo una questione di passato. E’ un lascito importante quello dell’architettura olivettiana, e del relativo benessere che hanno vissuto generazioni di nonni, figli e nipoti. Oggi, il complesso di edifici di straordinaria qualità che compone la Città industriale di Ivrea è una delle più alte espressioni di una visione moderna dei rapporti produttivi. Fondata sulla collaborazione tra capitale e lavoro, tra lavoratori e imprese.
Introduzione all’architettura olivettiana
Questo articolo si propone di raccontare l’architettura olivettiana, quale eredità materiale e tangibile lasciata da Adriano Olivetti, attraverso una “passeggiata virtuale” lungo l’asse storico di via Jervis. Reso possibile grazie al prezioso contributo informativo dell’architetto Marco Cosentino, curatore del volume “Obiettivo Novecento”, nel quale alcuni professionisti di tutta Italia hanno raccontato “Ivrea vista da fuori”. E alle foto dell’Archivio Storico Olivetti di Ivrea: tutte le foto (ad eccezione dell’Unità Residenziale Ovest) sono state rese disponibili dall’Archivio Storico Olivetti di Ivrea.

Occorre sin da subito evidenziare che l’architettura olivettiana è priva di uno stile predefinito. Come spiegheremo di seguito, essa muta al variare delle funzioni, all’evolvere dei tempi, all’immagine che un preciso lembo di città deve rappresentare. L’architettura olivettiana è la rappresentazione di un tempo in un luogo. E’ la visione plastica di una società che cambia i propri interessi, che si pone dei traguardi e ne comprende i suoi limiti.
Perchè parliamo ancora oggi dell’architettura olivettiana
Adriano Olivetti commissionava servizi, e non edifici. Commissionava spazi, e non muri. Oggi, l’architettura olivettiana rappresenta la dimensione materiale e tangibile dei più alti valori culturali, etici e sociali di quel modello produttivo firmato Olivetti. Valori che, al giorno d’oggi, paiono ineguagliabili. Perchè l’architettura olivettiana è stata capace di integrare, in maniera vincente, tre elementi che appaiono (oggi come allora) fondamentali.
In primis, la funzionalità della fabbrica, quale luogo di lavoro pensato a misura d’uomo. In modo da renderlo compatibile con le esigenze economiche e produttive dell’azienda, senza mai sacrificare la vita dell’uomo solo agli scopi della produzione. Bensì, accogliendo il rispetto delle esigenze delle persone e della vita sociale per raggiungere il benessere collettivo. Non solo officine. Ma quartieri residenziali, biblioteche, servizi sociali, colonie, mense, asili nido.
In secundis, la bellezza dell’estetica. Che non deve essere fine a sé stessa, ai canoni proposti e imposti dal mercato. Ma è da intendersi come qualità che racchiude in sé funzionalità, correttezza progettuale, rispetto delle norme, dei luoghi e delle persone. Applicando tali criteri all’ambito architettonico, è facile scorgere in Adriano la ricerca della bellezza a cui dovrebbe tendere ogni edificio.
In tertiis, il rispetto dell’ambiente. L’architettura ha una responsabilità di fronte all’uomo e alla Natura. In questo senso, miglior architetto non esiste se non la Natura stessa. Ogni intervento esterno allontana l’uomo dall’origine: per questo motivo l’architettura deve essere il traguardo di numerose considerazioni, che vanno oltre la pura legge del profitto.
Insomma, niente è stato lasciato al caso o all’improvvisazione. Questa visione, propria di Adriano Olivetti, ha guidato le scelte aziendali dell’architettura olivettiana: scelte dei luoghi, degli architetti, dei disegni, dell’impatto urbanistico e ambientale.
L’architettura olivettiana come esigenza dell’uomo
Nel laboratorio eporediese si “rincorrono” progetti e ampliamenti che non si sono mai fossilizzati sul gusto dell’architetto o del committente-finanziatore. I tempi, il vivace dibattito mondiale e le diverse personalità che affiancano la Olivetti nella sua crescita, evolvono. Di conseguenza, lo fanno anche le forme, i caratteri, le intenzioni e gli stili dell’architettura.
L’imprenditore tentava di soddisfare le esigenze fondamentali dell’uomo (salute, prosperità, appagamento, gratificazione) attraverso l’edificio in cui l’uomo si trovava a operare. Attraverso la casa in cui tornava dopo aver svolto una giornata di lavoro. Attraverso la città in cui svolge tutte le attività ordinarie. Allora diventa l’architettura stessa una delle esigenze dell’uomo, perché grazie a essa può soddisfare le esigenze fondamentali che lo rendono appagato.
La nascita dell’architettura olivettiana: la fabbrica in mattoni rossi
Il primo nucleo degli stabilimenti Olivetti è conosciuto come “la fabbrica in mattoni rossi”. La costruzione è situata lungo l’asse storico dell’attuale via Jervis (allora via Castellamonte), poco distante dalla stazione ferroviaria di Ivrea. Sull’edificio stava l’insegna “Ing. C. Olivetti & C. – Prima fabbrica nazionale macchine per scrivere“. La scelta del termine “fabbrica” non è causale. Forse è una parola con cui abbiamo perso il contatto e invece è densa di significato. Il termine fabbrica deriva dal latino fabrĭca ed è inteso come «mestiere, lavorazione, officina». Esprime, quindi, l’idea dell’attività, dell’opera di fabbricare. Ogni attività è fabbrica se serve a costruire qualcosa di nuovo, bello e utile.

Siamo nel 1908. L’ingegner Camillo Olivetti ha appena fondato la Società in Accomandita Olivetti, nonostante il progetto dell’edificio risalisse al 1896. La fabbrica in mattoni rossi rispecchia solo esteriormente la concezione e gli standard degli edifici industriali dell’epoca ottocentesca. Poiché la sua struttura, dietro ai mattoni canavesani, era composta da strutture portanti in cemento armato. L’edificio è un tipico esempio di architettura industriale del XIX secolo, ancora perfettamente visibile, in cui la luce filtra esclusivamente dalle finestre, aperte tra le spesse mura di mattoni.

Agli inizi la piccola fabbrica, nella quale lavorano seicento operai, è sufficiente per tutte le attività di produzione della Olivetti. Che si estendono progressivamente dalle macchine per scrivere ad altri prodotti per ufficio, alle macchine utensili e alle relative attività accessorie. Con lo sviluppo e la modernizzazione della produzione è necessario costruire altri edifici nelle vicinanze della fabbrica in mattoni rossi.
La razionalità nell’architettura olivettiana: le officine I.C.O.
Quando, nel 1934, Adriano Olivetti assume la guida della Società, erano già in atto i primi ampliamenti dell’impianto industriale originario, da lui stesso promossi. Nascono, così, le Officine I.C.O. (è l’acronimo del fondatore Ing. Camillo Olivetti), risultanti da quattro successivi ampliamenti (1934–60). Oggi, le officine I.C.O. si estendono su un fronte lineare di quasi un chilometro lungo via Jervis.

I nuovi corpi della fabbrica sono realizzati con uno stile architettonico decisamente innovativo. Il lavoro di ampliamento delle officine I.C.O. abbraccia l’architettura razionalista del Bauhaus e di Le Corbusier. E’ fortemente ispirato dall’incontro tra Adriano Olivetti e i due architetti italiani, Luigi Figini e Gino Pollini, aperti al dibattito europeo sull’architettura industriale. I due architetti si schierano a favore dell’innovazione, lasciando in disparte il tradizionalismo e le idee che aveva sviluppato il padre anni prima. E’ il confronto tra due generazioni. Tra l’uomo dell’Ottocento e quello del Novecento. Tra il padre Camillo e il figlio Adriano.
La razionalità nell’architettura olivettiana: i primi tre ampliamenti
Il primo ampliamento (1934–36) soddisfa le esigenze tecniche della produzione, ma anche quelle psicologiche del lavoro. I corpi di fabbrica a forma di parallelepipedo sono dei grandi ambienti, caratterizzati da una struttura portante in cemento armato, che permette di formare grandi luci per lo spazio di lavoro.
Rifiutando la tipologia dell’officina chiusa da muri verso l’esterno, il complesso I.C.O. è caratterizzato da ampie vetrate continue, presenti anche negli edifici della Nuova I.C.O., realizzati nel dopoguerra. L’intento era di aprire la visuale degli ambienti di produzione al paesaggio circostante. Nella facciata tutto viene nascosto all’interno delle officine, e non si capisce più dove sia la struttura. Richiama, nell’impostazione compositiva e tecnica, i modelli di architetture per l’industria che stanno maturando negli Stati Uniti e nel resto d’Europa.

Il secondo ampliamento (1937–39) prevede sostanzialmente la sopraelevazione della fabbrica e lo studio delle nuove addizioni nella parte retrostante l’edificio. La facciata sulla strada è completamente vetrata. Il terzo ampliamento (1939–40) è il più significativo per la caratterizzazione delle Officine. Il nuovo edificio lungo 130 metri è rivestito da una parete vetrata, che copre interamente la facciata dell’edificio, e un doppio ordine di infissi metallici. La parete vetrata utilizza il principio della camera d’aria, che garantisce una certa resistenza al calore. Per “filtrare” l’ingresso dei raggi solari, si introduce nello spazio intermedio delle antine opache in faesite, disposte in serie continua, ruotanti intorno a un asse verticale.

Le Officine Olivetti si collocano da quel momento tra gli esempi più rilevanti dell’architettura industriale in Europa, entrando a gamba tesa nel dibattito dell’architettura italiana ed europea.
La razionalità nell’architettura olivettiana: la Nuova I.C.O.
Il blocco delle Officine ICO sull’asse di via Jervis si conclude negli anni ’50 con il quarto ampliamento e la costruzione della Nuova ICO (1956–57). La nuova fabbrica ospita al suo interno due cicli di produzione che trovano due collocazioni distinte, differenziate nel corso della costruzione: quella del montaggio delle macchine, e quella (conosciuta anche come Officina H), che riguarda la torneria, le presse e le lavorazioni meccaniche.
La Nuova ICO riprende nelle soluzioni formali la parete vetrata già utilizzata negli ampliamenti precedenti, a sottolineare anche una volontà simbolica nel caratterizzare l’immagine unitaria dell’intero complesso produttivo.

Un accenno all’uso del colore (che sarà fondamentale nel Centro Studi ed Esperienze) è presente sui cavedi di distribuzione impiantistica della nuova officina ICO. I corpi delle torri nella parte retrostante dell’edificio sono rivestiti da piastrelle di maiolica gialla.

L’organicità nell’architettura olivettiana: il complesso dei Servizi sociali
Il nuovo edificio avrebbe dovuto accogliere, nei primi anni Cinquanta, i servizi destinati alla cura dei lavoratori. L’ingegnere aveva espresso chiaramente il fine a cui doveva tendere la nuova costruzione: non si trattava di un solitario intervento progettuale, ma si collocava all’interno del territorio come intervento urbanistico. L’intenzione era quella di porre un netto distacco formale tra gli edifici legati alla produzione e gli edifici destinati ai servizi.

La proposta su modulo esagonale di sei metri di lato degli architetti Figini e Pollini risultò la più convincente, a favore di un criterio più organico. La struttura è realizzata in cemento armato, a eccezione dei pilastri esterni in blocchi di sienite della Balma. Il modulo regolatore è il triangolo che si compone diventando esagono. Le pareti nei servizi sociali è come se non ci fossero. Il limite sono i terrazzamenti. Scompare la facciata mentre i pilastri rimangono. E’ ben visibile l’alternanza tra blocchi monolitici dei pilastri e gli alberi.

Dei quattro elementi previsti dal progetto originale ne furono realizzati soltanto due: in seguito alla morte di Olivetti si arrestò completamente il cantiere. Ogni blocco avrebbe dovuto accogliere una propria funzione: Ufficio personale, Infermeria, Assistenza sociale, Biblioteca e Centro culturale. La realizzazione parziale ha sicuramente leso la volontà di esprimere un “dialogo” tra le officine e i servizi resi al lavoratore.

La specularità tra le Officine e i Servizi Sociali
La specularità tra le Officine (esclusa la Nuova ICO non ancora realizzata) e i Servizi Sociali sembra un chiaro messaggio di uguale importanza tra il lavoro e il lavoratore. Quest’ultimo vede concentrarsi lungo un’unica direttrice i luoghi del lavoro, i luoghi destinati al benessere fisico e psicologico, i luoghi dedicati all’innalzamento intellettuale. Le componenti umane si congiungono in luoghi coordinati di uguale bellezza architettonica, di uguale funzionalità ed accessibilità.
La fabbrica cessa d’essere solo luogo di produzione (e alienazione). E diventa «intrico di strade, edifici, giardini, disposti come un organismo armonico intorno al capannone industriale», circondato da biblioteche, auditorium, asili, dispensari sanitari, attrezzature sportive. Una città ideale in cui sia possibile declinare il sogno di una “civitas hominum” secondo una visione paritaria, almeno nei principi, che consenta la disponibilità condivisa di ciò che è bello, e non distingua i quartieri secondo la classe sociale. Con queste parole, Giuseppe Lupo prova a tracciare il profilo complesso e irrisolto di Adriano Olivetti e a raccontare il suo sogno di un capitalismo umano ne La letteratura al tempo di Adriano Olivetti.
Il luogo per i progetti nell’architettura olivettiana: il Centro Studi ed Esperienze
Innanzitutto viene l’idea. Siamo nel 1954–55. A quei tempi la tecnologia prevalente era quella meccanica. I prodotti erano sempre più complessi. Per migliorarli non era più sufficiente l’iniziativa isolata di qualche progettista geniale. L’obiettivo era rendere più organica la fase di progettazione. Con il “Centro studi ed esperienze” si crea una sede specifica fisicamente separata dagli stabilimenti destinati all’attività di produzione (che ha i suoi ritmi e ha bisogno di sempre maggiori spazi), dove concentrare le risorse e avere il supporto di studi e ricerche condotte in modo sistematico.

Perché chiamarlo Centro Studi ed Esperienze? Anche qui la scelta lessicale non è casuale. Con il termine “esperienze” viene richiamato come valore positivo il percorso, non forzatamente il fine. Il campo verso cui si stava spingendo la Olivetti (l’elettronica) era talmente innovativo che scegliere il termine “esperienza” voleva dire anche non vagliare una soluzione o un percorso. Nel significato di esperienza, quindi, c’è quello di giungere ad un fine positivo o negativo, ma che comunque porti ad una conoscenza maggiore rispetto all’inizio dell’esperienza.
La forma del centro studi ed esperienze
Poi la forma. All’esterno la costruzione presenta una forma libera e movimentata, ma ordinata secondo linee geometriche. La dimensione spaziale dell’edificio, a primo impatto, ricorda la Casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright. La palazzina si articola in quattro ali asimmetriche disposte perpendicolarmente rispetto al corpo centrale, che danno un aspetto diverso alla struttura a seconda dell’angolo visuale. Le ali sono destinate a uffici con un proprio oggetto di studio: macchine da scrivere, da calcolo, calcolatrici e telescriventi. La scala, collocata al centro, funge da fulcro distributore. La copertura è piana.

Per effetto di un arretramento di volumi ai piani superiori, sono presenti terrazzi e balconate. Peculiarità – del tutto insolita in un edificio industriale – che è espressione della precisa volontà di Adriano. Doveva essere un edificio che avesse sempre uno sguardo verso i luoghi della produzione: i tecnici avrebbero dovuto ricordare che il loro lavoro (immateriale) era funzionale alla produzione (processo fisico).

Il colore e il Centro Studi ed Esperienze
Finalmente i colori brillanti. La palazzina del Centro Studi ed Esperienze è comunemente indicata come la “Casa blu“. I prospetti presentano un notevole effetto cromatico: le tinte sfumanti dal blu scuro all’azzurro del rivestimento in piastrelle di clinker smaltato lucido ricordano i colori del mare. Accanto alle sfumature di azzurro e blu, risalta il rosso scuro degli infissi in ghisa e il bianco delle travi di bordo orizzontali e dei pilastri perimetrali.

E’ il primo edificio dell’architettura olivettiana in cui il colore gioca un ruolo fondamentale, che lo rende ben visibile e riconoscibile da lontano. Piastrelle di clinker smaltato di rosso porpora verranno usate dallo stesso ingegnere per rivestire le superfici di muratura della centrale termoelettrica.
Il colore, insieme alla forma movimentata dell’edificio, contribuisce a portare una nota di vivacità mediterranea nel severo ambiente dell’architettura olivettiana. Che rivendica il paternalismo dell’architetto che ha progettato il Centro, il napoletano Eduardo Vittoria. Il quale ha scelto di dare un’alternanza più regolare alle facciate dell’edificio, tra pieni e vuoti, tra finestre e muri, tra lucido e opaco. Con preminenza di tamponamento opaco, a differenza delle officine. L’opacità aiuta la creazione di luce artificiale all’interno dell’edificio. In tal modo è più facile controllarla e gestire il flusso luminoso sui tavoli e sui tecnigrafi.
Il luogo per gli operai nell’architettura olivettiana: la mensa aziendale
Il servizio mensa organizzato dalla Olivetti viene pensato per i lavoratori che provengono da fuori Ivrea e che non hanno la possibilità di rientrare a casa durante la pausa per il pranzo. La necessità era quella di servire i pasti in un tempo relativamente ridotto per consentire un impiego migliore del tempo a disposizione per la pausa. L’intervento era “un luogo per gli operai e non per la fabbrica“. In tal senso, al momento del pasto, dirigenti, operai, impiegati, figli dei dipendenti, ex dipendenti mangiano insieme, tralasciando il ruolo che ricoprono all’interno della fabbrica. Ciò nel rispetto degli ideali socialisti su cui Adriano ha fondato ogni singolo mattone della Società Olivetti.

Il complesso di attività consumatorio-ricreative (1955–61) nasce in stretto rapporto con le caratteristiche funzionali e morfologiche già esistenti: non vengono realizzati interventi di sterro o riporto del terreno. E in stretto rapporto con l’immagine di “fabbrica ideale” di Adriano Olivetti. Ignazio Gardella pensò la struttura come uno spazio di quiete, racchiuso in un volume che appare come il prolungamento geometrico della retrostante collina morenica. Collocato nel retro delle Officine ICO, il complesso esigeva una superficie utile di 12.000 mq: doveva servire alla mensa e al dopo-mensa per i lavoratori e le loro famiglie. Circa duemila persone.
L’edificio fu collegato alle officine attraverso un tunnel interrato, da cui si accede passando attraverso il “Salone dei Duemila”. Salire per entrare in un nuovo ordine di dimensioni. Per Adriano, salire significa “elevarsi” dal livello del luogo del lavoro al livello della mensa, pur rimanendo in prossimità della fabbrica.
L’ambiente e la mensa aziendale
Lungo tutto il perimetro esterno dell’edificio corre una balconata che consente in molti punti l’accesso diretto al cortile. Questo meccanismo sembra invitare al contatto diretto con la natura, al ristoro della mente nei luoghi naturali, completamente agli antipodi rispetto all’ambiente artificioso della fabbrica.

Non ci sono veri e propri confini fisici e visivi tra l’edificio ed il parco esterno: le ampie vetrate incastonate tra i pilastri perimetrali formano un nastro trasparente continuo protetto dall’aggetto dei terrazzi superiori.

Il progetto riprende l’uso delle geometrie basate sul triangolo equilatero, già presente nell’edificio dei Servizi Sociali. La volontà di Adriano era quella di prediligere la “via organica” per tutti i servizi legati alla persona e alle sue esigenze. Per aumentare gli scorci visuali e diminuire l’impatto visivo dall’esterno, Gardella adotta una soluzione a pianta esagonale. La forma esagonale ritorna dopo l’utilizzo di questo elemento geometrico nei Servizi Sociali. E, in un certo senso, ricorda l’architettura de La biblioteca di Babele, celebre racconto fantastico di Jorge Luis Borges.
Guardando la pianta della mensa, però, si nota che la pianta esagonale presenta un’irregolarità nella simmetria. All’esagono, infatti, si aggiunge un’ala che si protende verso la collina. Questo si rende necessario a causa di un fattore naturale: uno sperone di roccia e un gruppo di alberi suggerivano la concavità che potesse contenerli. Questa delicata scelta progettuale deriva dalla precisa volontà di Olivetti secondo cui l’architettura non deve dominare la natura ma, piuttosto, valorizzarla. Secondo un patto di convivenza – e, quindi, di reciproco rispetto – con la natura.

Il luogo per i bambini nell’architettura olivettiana: l’Asilo Nido a Borgo Olivetti
Gli anni della Seconda Guerra Mondiale e gli anni immediatamente successivi si distinsero a Ivrea per il profondo impegno della Società Olivetti nel sopperire alle carenze di servizi legati all’assistenza sociale. In questa ottica nasce l’Asilo Nido (1939–41). Il progetto fu affidato agli architetti Figini e Pollini.
L’edificio, sorto nelle vicinanze della I.C.O., su un’area leggermente rialzata rispetto alla strada (e quindi più igienico e discreto), comprende l’asilo, il nido d’infanzia e i locali per la direzione e per l’assistenza sanitaria. Fu realizzato su un solo piano: l’assenza di scale doveva garantire ai bambini maggiore sicurezza.
Fra le murature di pietra a vista si aprono ampie vetrate. L’impiego della pietra rese più durevole la costruzione, negli anni in cui le norme dell’autarchia impedivano l’uso del cemento armato. Nel giardino sovrastante trovano posto la piscina, un’area verde per i giochi e un portico coperto.

Unità residenziale ovest: Talponia
Ai margini del parco di Villa Casana, sulla sommità della collina che caratterizza l’area, si trova l’Unità residenziale Ovest. Il complesso è colloquialmente noto agli abitanti e ai visitatori di Ivrea come Talponia perché le case stavano sotto il livello della strada, impatto zero da fuori. Commissionato dalla Olivetti agli architetti Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola (1969–71), il progetto era destinato ad ospitare i dipendenti temporaneamente in visita a Ivrea presso la sede dell’azienda.

L’edificio residenziale è perfettamente inserito nel territorio, del quale sfrutta sapientemente i dislivelli, rovesciandone i rapporti tradizionali. Adagiato su un declivio appositamente creato, ha la particolarità di presentare una pianta semicircolare, dal raggio di 70 metri, completamente interrata fatta eccezione per la facciata rivolta verso la grande corte interna. Il fronte unico presenta raffinati dettagli architettonici.

Internamente l’edificio, distribuito su due piani, è frazionato in alloggi semplici e duplex di modeste dimensioni. L’accesso agli alloggi avviene all’altezza del piano superiore, il cui tetto pavimentato è costituito dal passaggio pedonale. Si presenta come una sorta di piazza-terrazzo affacciata sulla sottostante corte interna, occupata da una collina piantumata.

Al pari del Nuovo Palazzo Uffici Olivetti, segna l’evoluzione di Ivrea da città industriale a città di servizio all’industria tra anni Settanta e anni Ottanta del Novecento.
La sede centrale dell’architettura olivettiana: Palazzo uffici
Negli anni ’50 la Olivetti non disponeva di una sede per gli uffici della presidenza e della direzione centrale a Ivrea. Ben presto, però, con il rapido sviluppo della società, era divenuta indispensabile una nuova sede che potesse ospitare in modo più razionale gli uffici delle staff centrali.
L’area destinata al progetto era un vasto terreno di proprietà aziendale, alle falde della collina di Montenavale, in posizione strategica perché vicino al casello autostradale e ai principali stabilimenti Olivetti disposti lungo la direttrice della via Jervis. Nel 1960, l’incarico del progetto è affidato a tre architetti da tempo legati all’Olivetti: Gian Antonio Bernasconi, Annibale Fiocchi e Marcello Nizzoli.
L’edificio, che sarebbe poi diventato la sede sociale della Società, doveva ospitare almeno 2.000 persone. Inoltre, come nella tradizione architettonica della Olivetti, ai progettisti venne richiesta una particolare attenzione all’ambiente: la costruzione, anche se di grandi dimensioni, doveva inserirsi gradevolmente nell’ampia area verde individuata, quasi 80.000 mq di prato e bosco.
Per limitare l’impatto ambientale, si riprende l’idea di una struttura a raggiera (già proposta da Nizzoli e Oliveri negli anni precedenti). Il corpo centrale di forma esagonale è quasi interamente occupato da un grande scalone elicoidale, dove si incrociano tutti i percorsi orizzontali e verticali. Dal corpo centrale si dipartono tre bracci, lunghi 70 metri e orientati a 120° l’uno dall’altro, che movimentano l’intera struttura e danno un senso di maggiore agilità architettonica, nonostante i sette piani fuori terra.

La facciata, regolare ed armoniosa, è alleggerita dall’ampia vetratura con finestre a nastro; la parte non finestrata, è rivestita in granito rosa di Baveno, con una fascia di sienite della Balma di colore grigio in corrispondenza del piano terra.

La copertura del vano centrale del grande scalone è in vetro di Murano; tutti i materiali sono scelti con grande cura e attenzione agli effetti cromatici.

Palazzo Uffici 1 sancisce il valore simbolico della nascita della grande società: la trasformazione della fabbrica in una multinazionale che, quindi, aveva bisogno di un senso plastico, tangibile. Palazzo Uffici 2 sancisce, invece, il valore simbolico della decadenza, che fatica ad essere ammessa. E’ la manifestazione della volontà di far vedere che la Olivetti era ancora presente sul mercato negli anni ’90.
L’architettura olivettiana oggi
Rileggere il ruolo che la visione olivettiana riserva all’architettura (e all’urbanistica) probabilmente aiuta a capire che cosa dell’eredità di Adriano Olivetti sia andato disperso. Al centro del suo percorso si trovano sempre l’uomo come individuo, e l’uomo come membro di Comunità. L’architettura (e l’urbanistica) sono lo strumento attraverso cui l’idea sociale diventa concreta: Ivrea è un laboratorio di idee. Gli edifici che nascono attorno a via Jervis sono i luoghi in cui si sposano profitto e solidarietà, cultura e lavoro, individuo e Comunità.
Ecco; credo che questo sia ciò che è andato disperso dell’eredità di Adriano Olivetti. L’approccio sistemico che ha come obiettivo l’uomo e la qualità della sua vita. La capacità di agire in maniera programmatica inseguendo un’idea di società, di città, di Comunità, e mettendo al servizio di questa sia la qualità estetica che il profitto. In questo senso, oggi non credo che esista un’architettura che possa essere definita “olivettiana”, se non intendendo il termine come architettura della Olivetti.
Oggi è possibile fare una visita al MAAM (Museo all’aperto delle architetture moderne olivettiane) di Ivrea, che è un percorso tra le opere architettoniche lasciateci in eredità da Adriano Olivetti. Due chilometri di percorso che si snoda sull’asse di Via Jervis e nelle aree contigue, sempre fruibile, visitabile autonomamente. E’ il modo migliore per comprendere meglio i sogni e i progetti di un uomo che fu tra le migliori menti della sua epoca. Il cui obiettivo non sia solo la curiosità verso edifici costruiti da maestri dell’architettura italiana per un committente dalla grande visione. Ma sia, piuttosto, la ricerca della risposta ad una domanda: che cosa sarebbe oggi delle nostre città se l’architettura, definita “olivettiana” nel senso sovraspiegato, avesse realmente avuto seguito?