“Papà, vieni a vedere!”
Mio figlio mi chiama dalla terrazza. La piccola terrazza dove ho trascorso tante ore. In ogni stagione. Con qualsiasi tempo. Giorno, e anche notte. A pensarci, l’unico luogo, in questo…appartamento, ove mi trovavo a mio agio. L’unico che ricorderò con un velo di piacere.
Da qui, per altro, nei mesi di quella follia, delirio distopico, che hanno chiamato lockdown, registravo le lezioni per i miei studenti. Forse solo un modo di illudermi di essere ancora un insegnante…
Comunque, raggiungo mio figlio sul (piccolo) terrazzo. È appena finita una specie di tempesta di vento. Che sembrava gravida di pioggia. Ma della pioggia, qui, è giunto solo il profumo. Neppure una goccia… Però deve aver piovuto, e molto, altrove. Si sentivano i tuoni. Appena “un bubbolio lontano” per citare il Pascoli.
Deve avere piovuto, anzi tempestato, sui Tiburtini. La cui sagoma molle, da colline non da veri monti, da qui intravedo in lontananza. Se il cielo è terso. Altra ragione per cui mi piaceva starmene in terrazza. Mi permetteva l’illusione della montagna. Mi dava…un po’ di respiro.
Adesso si vedono bene. L’aria è limpida. Siamo, ormai, prossimi al tramonto, ma vi è abbastanza luce ancora. Anzi…proprio la luce un po’ attenuata, non abbagliante come nel meriggio, permette di vedere più lontano. E poi il velo d’afa, che perdurava da tanti giorni, è finalmente svanito. O forse si è, solo, sollevato per un momento. Non c’è da farsi illusioni… Il settembre, qui a Roma, può essere ancora soffocante…ma la cosa, ormai, non mi riguarda più.
“Papà, guarda!”
Mio figlio mi chiama di rado papà. Papi, papo… Più spesso, semplicemente “Ehi, senti…”, senza alcuna definizione di ruolo. Sempre più spesso, ormai. È un adolescente…
“Papà, guarda!” deve essere davvero qualcosa fuori del comune. Inusitato.
Guardo. Ma guardo lui. Ha gli occhi, dal taglio vagamente orientale, spalancati. Incantati per lo stupore, direi…
Mi indica l’orizzonte con una mano.
Un arcobaleno…allora vi è stato davvero un temporale, laggiù in fondo.
“Guarda meglio!” mi intima.
Ha ragione. Gli arcobaleni sono due. Sembrano due archi multicolori che si intersecano. Il disegno di un architetto geniale…e un po’ folle.
“Forse, là, da qualche parte, dove iniziano, vi è una pentola piena di monete d’oro” mormora…
La pentola dell’oro. Il tesoro del folletto. Si ricorda ancora qualcosa delle storie che gli raccontavo quando era…beh, più piccolo.
Il libro di Stephens. “La pentola dell’oro”. Forse, adesso potrebbe cominciare a leggerlo, senza bisogno di me. Senza che io glielo semplifichi, riduca in…soldoni.
È un bel libro. E Stephens era uno scrittore notevole. Un autodidatta, dalla vita difficile. Legato al Sin Fèin, alle lotte per l’indipendenza della sua Irlanda. Anche se poi, negli ultimi anni, visse a Londra. Lavorando per la BBC.
Il suo mondo poetico è quello delle fiabe, delle leggende d’Irlanda. Tra l’altro, padroneggiava bene il Gaelico. Cosa rara anche tra gli irredentisti più accesi.
La sua scrittura è semplice. Essenziale. Ha il ritmo del racconto popolare accanto al fuoco. E, proprio per questo, particolarmente incisiva. Eppure Joyce, di cui era grande amico, arrivò a scrivere che se non fosse riuscito a completare “I Finnegan’s Wake” – l’ultimo capolavoro, un pastiche linguistico di estrema, e raffinata, complessità, difficile da decifrare, impossibile da tradurre – si augurava che fosse proprio Stephens a prenderlo in mano. E a portarlo a conclusione. “È l’unico in grado di farlo” disse.
“La pentola dell’oro”, una vecchia edizione Adelfi, deve essere da qualche parte. In uno degli scatoloni già in viaggio. Quando potrò aprirli, nella nuova casa, proverò a darglielo. Chissà mai…
Lentamente, i due arcobaleni vanno svanendo. Nella luce ormai crepuscolare. Si gira verso di me
“Portano fortuna, vero papà?”
Gli arruffo i capelli, perennemente spettinati. Per una volta, mi lascia fare. Senza espressione di fastidio.
“Sì – gli dico – ci stanno augurando buon viaggio. E buona fortuna.”
Mi sorride.