Come giá segnalato in precedenza da Electomag, è in corso da alcuni anni in tutta l’America Latina un cambiamento del fronte politico: i governi populisti sono stati soppiantati, in un modo o nell’altro, da governi di stampo neoliberista.
Paesi come il Brasile e l’Argentina che erano riusciti a ristrutturare il pagamento del debito esterno contratto con il FMI in difesa della propria sovranità, hanno subíto il ritorno di governi il cui potere esecutivo è formato essenzialmente da operatori degli organismi del prestito internazionale che stanno permettendo al Fondo monetario di impancarsi a giudice (che aveva perso credibilità dopo il default del 2001) in tutta l’America Latina grazie a politiche messe in atto per debilitarne la struttura economica e sociale.
Il 10 maggio di quest’anno sono iniziate le trattative per un accordo tra il ministro dell’economia argentino Nicolás Dujovne e il presidente del fondo Christine Lagarde che prevede un finanziamento di 50000 milioni di dollari in tre anni: 15000 milioni in giungo del 2018 e una seconda tranche, in caso di necessità, di 35000 milioni da ricevere in quote trimestrali da 3000 milioni se rispettate le condizioni imposte dal fondo.
In effetti, l’accordo prevede un monitoraggio del FMI su quattro assi fondamentali del sistema economico/finanziario del paese: pressione fiscale, livello inflazionario, limite minimo del fondo della riserva della Banca Centrale e valore del dollaro.
Le manovre sinora effettuate dal governo sono risultate inefficaci per diversi motivi: l’economia argentina è basata oggi, più che mai, quasi esclusivamente sui proventi dell’esportazione delle materie prime, grazie anche allo smantellamento di 7500 PMI in soli due anni e mezzo di governo Macri.
Questa peculiarità implica un’economia sempre più assoggettata al valore del dollaro, che grazie ad interventi del governo atti a ridurre la pressione fiscale sulle grandi imprese esportatrici, e una totale mancanza di controllo sui redditi delle stesse, ha prodotto un’ascesa incontrollata del prezzo della valuta statunitense, la quale ha determinato un aumento delle tariffe sui servizi, sugli alimenti e sul prezzo del carburante e ha generato quindi un reiterato e cospicuo aumento dell’inflazione.
I dati statistici ci stanno mostrando che il limite inflazionario del 32% (il 29,5% fino ad oggi con un ritmo mensile superiore al 3%) imposto dal FMI sarà abbondantemente superato per fine anno.
Un governo che sin dall’inizio del suo mandato ha promosso la fuga di capitali all’estero (diversi funzionari hanno ammesso di possedere conti cifrati offshore nei paradisi fiscali), ha tentato in questi ultimi mesi di porre un freno all’aumento del dollaro attingendo dalle riserve della Banca Centrale e utilizzano più di 10000 milioni di dollari della prima tranche del prestito (circa il 70% dello stesso, destinando i restanti 5000 milioni al pagamento dei consumi) rasentando il muro minimo dei 53600 milioni del fondo di riserva imposto dal FMI, e non riuscendo, tuttavia, nella disperata quanto improvvisata impresa di frenare la svalutazione della moneta nazionale, che è passata dai 20 pesos di aprile ai 42 pesos per dollaro di questi giorni.
Ecco quindi, che il ministro dell’economia Dujovne si è dovuto riprostrare davanti all’elegante Lagarde per rinegoziare l’accordo e riaccattare altri 3000 milioni di dollari.
L’enorme svalutazione del pesos e di conseguenza una svalutazione del salario, assieme ad una maggiore pressione fiscale rappresentano la principale manovra attraverso la quale il governo ha preteso sinora di ridurre il debito interno nel rispetto dell’accordo con il FMI.
In effetti, la cospicua riduzione del valore delle pensioni, della spesa sociale, del salario, i tagli alla spesa pubblica per l’educazione e la sanità stanno provocando, in un’economia come quella argentina, già precaria per i motivi succitati, un gran conflitto sociale che accresce l’instabilità e l’incertezza politica, risultato di una disastrosa gestione dell’economia.
È previsto per questo primo lunedì di settembre un ennesimo incontro a Washington tra l’ormai pendolare ministro dell’economia argentino e i vertici del FMI che, per garantirsi la solvibilità del paese e ridurre il tasso d’inflazione, chiederà un prossimo esborso anche da parte di quel settore, sinora intoccabile, dell’imprenditoria esportatrice attraverso l’applicazione di un’imposta sulle esportazioni, una delle misure economiche di stampo “populista” tanto contestata all’ex presidente Cristina CFK.
Molti economisti sono dell’opinione che i tempi non sarebbero ancora maturi per un nuovo default, anche se ad oggi l’indice del “rischio paese” ha raggiunto i 771 punti.
Viene da chiedersi fino a quando e soprattutto come l’Argentina potrà far fronte ad un debito pubblico esterno tra i più alti al mondo, più di 200000 milioni di dollari. Pagherà “Il mercante di Washington” con lo “smembramento” delle proprie risorse naturali ed energetiche?
1 commento
Muy claro y muy terrible, la pregunta final quita el aliento. Comienza a olerse el humo de las trincheras.