La “renga” era, un tempo, il piatto delle Ceneri. E un po’ di tutto il periodo quaresimale. Polenta e aringhe. Anche il baccalà a dire il vero. E acciughe. E sarde… Insomma, pesci poveri. Poco costosi, allora. Accompagnati dall’ immancabile polenta. O più esattamente che facevano da contorno alla polenta. Il vero piatto forte. Quello che riempiva lo stomaco. E dava almeno l’illusione d’esser sazi…

Però la povera aringa è, in realtà, piatto gustosissimo. Ricordo, da ragazzo, delle vere scorpacciate. In un buco che si chiamava “Il vinaio”. Ed era di un tale Simi, un omaccione baffuto che poteva essere balzato fuori da una pagina di Guareschi. Se non fosse stato per l’accento spiccatamente Veneto. Di lui si diceva che avesse un buon passato d’atleta, e che poi si fosse buttato a fare il vinattiere. Attività un tempo rispettata. E redditizia, soprattutto in terra di forti bevitori.
Per altro le botteghe di vini, non diverse dalla sua, forse solo un poco più ampie – ché quella era proprio un buco con tre grosse damigiane, una parete di bottiglie e un bancone dove si stava al massimo in quattro – hanno avuto anche una loro gloria. Parlo, anche se vi sembrerà strano, di gloria letteraria. Tipo la famosa (per me, almeno) Baracca Rossa di Alessandria. Quella d’Egitto, intendo, città cosmopolita ad inizio novecento. E di forte immigrazione italiana. La Baracca vendeva vino. Ed era covo di anarchici e sindacalisti rivoluzionari. Gestita da quel geniaccio irregolare di Enrico Pea, sempre col basco toscano da cavatore di Carrara. Pea la cui scrittura affascinava Pound, e che oggi quasi più nessuno legge. O anche solo ricorda. Lì, in quella baracca di legno, davanti a tazze di vino, cominciò ad ardere di inconsapevolezza, per usare le sue parole, un giovanissimo Ungaretti.
E un’altra bottega di vinattiere. A Colle Val d’Elsa. Ritrovo delle squadracce della “Disperata”. Dove nacque “Il Selvaggio” diretto da Maccari, lo Strapaese di Malaparte e Soffici…

Simi non aveva tante pretese. Cabernet, Merlot e un bianco che non ricordo, perché noi si andava a rosso. Con aringhe affumicate e carciofini sott’olio. Quello c’era. Però il posto era allegro. E ricordo un professore d’arte mezzo alcolizzato che, dopo vari bicchieri – quelli grandi, da cucina, riempiti sino all’orlo, mica i calici semivuoti delle odierne enoteche – ci tenne una lezione sul Ciclista di Boccioni. Tanto improvvisata, quanto magistrale. Storie già raccontate. Ma che ritornano. Ciclicamente.
Perché è quaresima. E in bocca vorrei sentire il sapore forte delle aringhe. O quello, più dolce,, del baccalà alla Cappuccina. Con olio, uva passa, aromi, una punta di zucchero… E magari dei bigoli in salsa d’acciughe. Che erano piatto di varie feste, il Redentore, la Vigilia di Natale…. Ma piatto povero, solo olio, cipolla acciuga. E al posto del lussuoso, e peccaminiso, parmigiano, una spolveratata di pan grattato… Quindi piatto perfetto per Quaresima…

E vorrei sentire il sapore del vino. Di quel vino che si beveva in tazze di coccio alla Colonna di Treviso. Una taverna vecchia e polverosa. Oggi, mi dicono, un ristorante di lusso. Ma allora era polenta, zuppa di fagioli, aringhe. E i vino era il famigerato Clinton, che ti faceva venire i denti neri, tanto era tannico. Oggi, vietato dai burocrati europei, per i quali è lecito produrre carne sintetica, ma non un vino che, da noi, si beveva già al tempo dei paleoveneti…è che era panacea di ogni male. Ammazzava i virus, senza bisogno di vaccini…
Sei vecchio, mi dirà, sicuramente, qualcuno. Sempre con questi discorsi. Con queste nostalgie del passato. Per un mondo che non c’è più. Ma guarda il progresso. Quante cose abbiamo di più oggi…
Già. Guardo. Vedo dalla finestra il corriere di MacDonald, con mascherina di rigore… Sta consegnando hamburger, Coca Cola, patatine fritte senza traccia di patata…
E mi torna in bocca il sapore dell’aringa, del Clinton… della libertà perduta e dimenticata…