Pellegrino Artusi non era uno scrittore di professione. E neppure sognava, come tanti, di diventarlo, cogliendo allori e gloria. Era infatti un ricco commerciante di stoffe e seta, con banco, come si diceva per uso medioevale, a Firenze. Dove, per altro riposa, in San Miniato al Monte. Un autodidatta, che si ritirò dagli affari a cinquant’anni. Per dedicarsi con tranquillità allo studio dei classici e delle lettere italiane. Si dilettava a scrivere, senza troppe pretese, come dicevo. Una biografia del Foscolo, dei saggi sul Giusti, una Autobiografia ricca di notazioni sapide e di gustosi aneddoti.
Tuttavia l’opera cui lavorò per oltre trent’anni, visto che si spense novantenne e in ottima salute fisica e mentale sino all’ultimo, è “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”. Oltre 15 diverse edizioni, sempre ampliate e corrette… roba da far impallidire le fatiche del suo grande modello di scrittura, il Manzoni, sul romanzo. La prima edizione dedicata ai suoi due gatti. Con i quali viveva, felicemente scapolo, insieme ad un cuoco e ad una, solerte e amorevole, governante.

Non era, propriamente, un gastronomo. Piuttosto… un gastrosofo, per riprendere una definizione di Franz Herre, storico con la passione della cucina… ovvero un sapiente, un saggio dell’arte di mangiare.
Avendo viaggiato molto per affari, si era divertito a provare tutte le diverse cucine regionali, e locali, di un’Italia da poco unita politicamente. Ma ancora frammentata in usi, costumi e… gusti. E aveva raccolto le ricette. Scrivendole in un bell’italiano dall’inflessione fiorentina. Anche se gli Artusi erano romagnoli. Di Forlimpopoli. Da dove erano fuggiti dopo che il, famoso, Passator Cortese, al secolo Stefano Pelloni (dicono antenato della Raffaella Carrà ) aveva assaltato la cittadina, ancora parte dello Stato Pontificio. E, nell’occasione, la sua banda aveva saccheggiato la casa dei ricchi Artusi, violentando anche una sorella, che ne uscì pazza. E morì in manicomio. Quanto a cortesia, non c’è male….
Della Romagna mantenne sempre il gusto per i cibi. E per una cucina che neppure con un volo di fantasia si potrebbe definire… leggera. Saporita, gustosa, ma certo non dietetica.
Il suo Libro è un gioiello di prosa, uno dei dimenticati capolavori del dopo unità. Come il Pinocchio di Collodi. E come il Pinocchio, ignorato nelle nostre scuole, ma tradotto in tutto il mondo. Persino in giapponese.
Leggere le sue ricette , per me è sempre stato un autentico godimento. Fin da quando ritrovai La Scienza in cucina sul banco di una botteguccia di libri vecchi. Tra un romanzo di Rafael Sabatini, e le poesie dell’Aleardi. Tutta roba che nessuno legge ormai più…
Ricette che sono, di per se stesse, un ritratto del nostro paese. Un ritratto, però, a mosaico. Composto di innumerevoli tessere dei più diversi colori.

L’Artusi scriveva bene. E narrava di gusto. Le sue ricette, che assicura tutte provate e riprovate (da buon figlio del positivismo) sono vere e proprie avventure. In un mondo di sapori e odori che nulla ha a che fare con le, insipide, pietanze dietetiche oggi tanto in voga. Non ci sono crostini di kamut con riduzione di pistacchi su un letto di rucoletta e simili balle da cucina creativa e (pseudo)stellata. Il Pellegrino mangiava come scriveva. In un buon italiano, non privo di reminescenze letterarie, ma schietto e vivo.
Ci troviamo zuppe e minestroni, per preparare i quali non può mancare battuto e soffritto… alla faccia dei dietologi. Brasati che devono cuocere per ore, lentamente, nel vino speziato. Risotti dalla lunga e sapiente preparazione… per altro sono quasi certo che Gadda prese spunto da qui per la sua famosa ricetta del risotto alla milanese. Sulla quale si è esercitato con acribia padre Pozzi, uno dei nostri massimi filologi e critici, in una straordinaria pagina di “Alternatim”..
E poi…. ci sono i maccheroni. Perché, scrive l’Artusi, noi italiani siamo “mangia maccheroni”. Dalle Alpi alla Sicilia. Elemento di unità pre-politico. Ancora più della lingua, qualcosa che ci distingue da tutti gli altri popoli europei .
Mangia maccheroni. Lo afferma con orgoglio.
Ogni tanto torno a sfogliare quel libro. A leggere di un paese dove non ci si doveva preoccupare di trigliceridi e colesterolo. Ma solo di togliersi la fame. Che ancora tormentava i più.
Uno sfamarsi che, tuttavia, non era solo riempirsi la pancia come dei bruti. Anzi, proprio la povertà e la penuria delle materie prime aguzzava l’ingegno. Ed è così che è nata la grande cucina italiana. Che porta in tavola pietanze meravigliose fatte con quasi niente. Farina, acqua, uova, verdure… burro e strutto. Olio.
Semplice e gustosa. Povera e sontuosa. Come un piatto di maccheroni al forno. O i cappellacci di zucca col ragù di castrato…
Sarei curioso di sapere cosa direbbe il buon Pellegrino vedendo, oggi, tanti (cosiddetti) vip e radical chic pubblicizzare entusiasti la farina di grilli o le larve al forno…
I suoi, poveri, contadini avevano molto più gusto. Avevano fame, e si sfamavano con intelligenza e creatività. Senza farsi imporre schifezze da quell’accolita di malfattori, senza patria e radici, che alligna tra Davos e Bruxelles….