“It’s all been leading to this”.
Tutto ha portato a questo. È stata questa la frase di lancio del marketing promozionale di Avengers: Infinity War che ha impazzato negli ultimi mesi in rete.
E, se vogliamo, un po’ ci hanno fregato: perché è vero che dopo 10 anni e 18 film (prima di questo) siamo arrivati a questo punto della più grande storia seriale mai portata al cinema, ma è altrettanto vero che questa è solo la prima parte della conclusione di una fase (la Fase 3 del MCU) di un’intera saga.
Saga che, nelle parole del suo ideatore, Kevin Feige, è destinata ad essere rivoluzionata, che ha bisogno d’idee nuove e personaggi nuovi, e che grazie a quelli storici, in questo film (quasi) tutti riuniti – all’appello sono mancati solamente Hawkeye e Ant-Man, che scopriremo dov’è stato durante gli eventi di questo Infinity War nel secondo capitolo del suo film in solitario in uscita a luglio – e dunque agli incassi stratosferici da essi derivati – battuto il record del 2016 detenuto, sempre in casa Disney, da Il Risveglio della Forza come miglior incasso nel week-end d’apertura (quello determinante per testare il successo o il flop di un film) con ben quasi 260 milioni di dollari d’incasso sul suolo americano e i quasi 450 nel resto del mondo, numeri questi che dovrebbero far seriamente tremare il record tutt’oggi detenuto da Avatar di James Cameron di ben 2,7 miliardi di dollari in tutto il mondo (comunque gonfiati dal prezzo maggiorato del biglietto del film in 3D) – ha creato una base relativamente solida che potrà senza dubbio permettere alla Marvel di raccontare storie e personaggi meno noti e di minor appeal, visto che ormai la fidelizzazione del suo pubblico ha raggiunto un livello tale che (molto probabilmente) sarà difficile immaginare un futuro flop al botteghino e quindi un ridimensionamento dell’intero progetto – cosa peraltro avvenuta invece negli spin-off televisivi, non certo per Agents of S.H.I.E.L.D. quanto piuttosto per il bruttissimo Inhumans.
Ma alla Casa delle Idee ci hanno fregato una seconda volta, e una terza: la seconda, solleticando il pubblico nei mesi scorsi con l’idea che questo fosse comunque un film auto-conclusivo, e non lo è, ricordando in questo, non che sia necessariamente un difetto, film come Il Signore degli Anelli o Lo Hobbit;
la terza – e gliela si può perdonare, anzi, gliene si deve fare un enorme plauso – grazie a un finale spiazzante, inaspettato, magnificamente shakespeariano, così carico di vis tragica.
E tutto, grazie a un protagonista altrettanto inaspettato, che avevamo potuto vedere solo per pochi secondi ben 6 anni fa nella scena di mid-credits del primo Avengers firmato Joss Whedon, ma che sappiamo aver tramato nell’ombra per tutti questi 18 film che ne hanno preceduto l’arrivo: Thanos, il Titano Pazzo.
Figura mastodontica, e non solo da un punto di vista fisico, ma al contempo tragica, che, seppur completamente in CGI, ha la credibilità di Josh Brolin che lo interpreta, con dei tratti di profonda malinconia che nessuno si aspetterebbe in un villain.
Ed è proprio Thanos il punto di forza di questo diciannovesimo film Marvel, un antagonista finalmente degno di tal nome, tale addirittura da oscurare l’ensemble di super-eroi che si battono per contrastarlo e impedirgli di raccogliere tutte e sei le Gemme dell’Infinito – raccontate in buona parte dei film in solitario precedenti – da incastonare nel potentissimo Guanto dell’Infinito, quell’oggetto magico fiabesco con cui dominerebbe incontrastato l’intero universo. Ma per farne cosa? Riequilibrarlo. Nessuna bramosia di potere o dominio.
Ed ecco l’altra grande innovazione che rende Thanos il miglior villain del MCU – c’è una regola nel cinema che vuole che i film migliori siano quelli in cui migliore è il cattivo – un alieno tormentato da un destino a cui immagina tutti i pianeti della galassia siano destinati se non verrà risolto un problema che è anche nostro e molto attuale: il sovrappopolamento; il suo mondo, il suo pianeta, era collassato a causa di questo, e Thanos ha compreso l’enorme rilevanza che ciò può avere per i destini della galassia, e se ne vuole far carico, anche a costo di sterminare metà della popolazione della Terra.
E con le sei gemme e il Guanto dell’Infinito ci riuscirà, letteralmente.
Thanos come Joker
Thanos è l’altra faccia della medaglia del Joker nolaniano interpretato dal compianto Heath Ledger – uno dei migliori cattivi della storia del cinema: figlio del caos e dell’anarchia questo, rivoluzionario che voleva vedere il mondo bruciare per un mero piacere narcisistico, tanto quanto Thanos è un egomaniaco dal codice morale irreprensibile, e per qualcuno insensibile, che gioca a fare Dio per un bene superiore, per motivazioni che – altra issue perfettamente contestuale rispetto al tempo e alla società in cui viviamo, perché i film migliori funzionano quando parlano di noi e del nostro mondo – nascono dal fallimento e che da esso devono rinascere; tiranno ipersensibile, e per questo tormentato, a causa anche delle scelte fredde e razionali che lo vedranno coinvolto, e vedranno coinvolta sua figlia Gamora. Mai mostro però.
Un villain al quale, paradossalmente, ci si potrebbe anche affezionare – e succede, si corre fortemente il rischio di parteggiare per lui per tutto il film, anche quando sfida i nostri eroi così tanto amati – con un qualcosa che, empaticamente, mi ha fortemente ricordato un altro villain eccellente, quel John Doe di Seven, interpretato magistralmente dal talento di Kevin Spacey nel film di David Fincher del 1995.
Non tutto però funziona in questo film che è certamente epico, spettacolare e coraggioso in molte delle sue scelte drammaturgiche, e, per questo, non è, dal mio punto di vista, il miglior film Marvel di sempre.
Civil War era molto più equilibrato, certamente pur dovendo aver avuto a che fare con un numero più limitato di personaggi da gestire – la vulgata della critica cinematografica odierna vuole che essendoci stati tanti personaggi, tutto era più difficile, che potrebbe essere ragionevolmente vero, ma, per chi ha visto, o vedrà, il film, sarà facile capire come a molti personaggi siano stati regalati davvero pochi minuti (Bucky/Soldato d’Inverno o, SPOILER, l’incomprensibile (al momento) ritorno del Teschio Rosso), tanto da farli passare quasi inosservati, come se non ci fossero, tanto che conteggiarli sarebbe un’eccessiva forzatura – e questo mancato equilibrio nell’ultima creatura Marvel, più che in termini di ritmo e scelte narrative, pecca in termini di mood: si sa, la comicità e l’ironia sono diventate il marchio di fabbrica della linea creativa voluta da Feige e inaugurata da Whedon nel 2012 – non a caso, portato nell’universo DC a risistemare i toni di Justice League proprio per questa sua capacità – ma hanno subito una deriva a mio avviso pericolosa negli ultimi film, in particolare in quel vituperato Thor: Ragnarok, che ha trasformato Thor e Hulk in due macchiette comico-demenziali; e che in questo film hanno mantenuto la medesima linea, che ormai è diventata insopportabile. Come insopportabili sono diventati i siparietti comici che coinvolgono Star-Lord e i Guardiani della Galassia, e il personaggio di Draxx in particolare, personaggio costruito – non so quanto fedelmente rispetto ai fumetti originali creati da Arnold Drake e Gene Colan – alla stregua di un ritardato mentale; per molti un plus vincente, per me un minus urticante.
C’era poi da aspettarsi che la struttura narrativa fosse incentrata su un plot molto semplice – Thanos deve conquistare tutte e sei le gemme, con il film, in maniera molto interessante, che inizia in media res, con una delle gemme già conquistate, e gli Avengers glielo devono impedire – e che, con gli eroi ampiamente sviluppati nei loro film in solitario precedenti, quello che sarebbe stato interessante mostrare avrebbero dovuto essere le evoluzioni nelle loro relazioni.
Purtroppo, in questo il film fallisce, mostrando il fianco ad alcune pecche che il precedente ensemble Civil War, ma anche i due precedenti Avengers di Whedon, non avevano, o avevano saputo abilmente mascherare: se guardiamo il dettaglio delle dinamiche interpersonali tra i personaggi, notiamo come siano assai sbiadite e stereotipate, senza il benché minimo sforzo creativo di voler prendere un cliché e provare almeno a giocarci un po’, perché le due categorie relazionali tra personaggi sono quelle di ego vs. ego (Star-Lord vs. Thor) tra maschietti, e quella della piatta love story tra maschi e femmine (Visione e Scarlett Witch), senza l’esposizione di alcun pensiero profondo e tematica valoriale degna di nota.
E poi c’è Hulk/Bruce Banner: ormai la sua trasformazione demenziale è completa, e così il suo conflitto interiore – dopo essersi reso conto che Thanos è più forte di lui e lo può mettere al tappeto non riesce più a evocare il Golia Verde – diventa macchiettistico nelle sue esposizione e messa in scena, banalizzando, anzi, forse vituperando, quel meccanismo umano alla base del rapporto tra Io e Super-Io, che ha avuto, cinematograficamente parlando, momenti altissimi con il Gollum/Smeagol de Il Signore degli Anelli, o il Green Goblin di Willem Dafoe nello Spider-Man originale di Sam Raimi, e che ha trovato la sua vetta di perfezione nel Peter Parker/Spider-Man che perde i suoi poteri in quel capolavoro inarrivabile che è stato Spider-Man 2 (2004). Se a questo aggiungiamo poi che molti degli eroi Marvel più amati – Iron Man e la stessa nuova incarnazione dell’Arrampicatore di Muri – sono stati trattati alla mercé di semplici action figures atte a sfoggiare i loro costumi sempre più cool e sempre più tecnologici – a rigor di logica disneyana, per vendere quanto più merchandising possibile – capiamo dove ha fallito lo storytelling di questa prima parte della conclusione della storyline dei Vendicatori.
C’è un senso di Morte straripante che pervade tutto il film
– e l’assonanza Thanos/Thanatos, parola greca che significa, appunto, Morte, ne è esempio perfetto – che è un’altra caratteristica innovativa per un film Marvel, soprattutto perché visivamente in contrasto con la luce e i colori del film; scelta coraggiosa, che ha certamente pagato, perché fortemente creativa, laddove molti altri registi – vedasi l’esempio già citato dell’universo DC coi film di Zack Snyder – avrebbero prediletto la rassicurante consuetudine di uno stile gritty e dark.
Non è solo la luce che può evocare, ma, anche e soprattutto, ciò che i personaggi fanno, e in questo Infinity War è davvero riuscito. Chapeau alla Marvel e ai fratelli Russo che hanno saputo gestire tutto questo – anche se, in termini di ritmo, la prima ora vola via che è una meraviglia, mentre la seconda parte arranca un pochino – per un film che era anche solo impensabile da immaginare, figuriamoci da fare, ma che ti lascia talmente tanto l’amaro in bocca per questo suo sorprendente finale, che vorresti che Doctor Strange e la Gemma del Tempo ti catapultassero direttamente nel 2019 per vedere come tutto andrà a finire.
Perché la Morte non è la fine, ma soltanto l’inizio di qualcos’altro.