Dalle parti di Kyoto c’è una foresta di bambù. Altissimi, sottili, flessuosi. Una foresta fitta, impenetrabile. Ma di straordinaria…eleganza.
Sto guardando delle foto, naturalmente. In una si vede una donna di spalle. Con l’abito e l’acconciatura dei capelli raccolti… tradizionale. Un ombrellino aperto per ripararsi dal sole, che filtra tra i bambù. Cammina su una strada bianca, abbacinante. Che si snoda fra due pareti compatte di piante.
Una foresta. Ma una foresta di luce.
Trovo, in questa immagine, quasi una rappresentazione perfetta di quella cultura. Forse solo un residuo del passato ormai. Comunque perfetta. L’incredibile leggerezza dell’Ikebana, l’arte del disporre i fiori. Esercitata non solo dalle donne. Il vero samurai vi si dedicava, alternandola alla disciplina della spada. Cogliere l’armonia è importante. Per creare bellezza. E, anche, per combattere e uccidere.
L’origami. L’ effimera perfezione di, fantastiche, opere di carta. Come i mandala di scuola Tendai e Shingon, giunti dal Tibet. Tracciati nella sabbia con grani colorati. Perfetti. Luminosi. E subito dispersi dal vento.
Non per nulla quella giapponese è una cultura guerriera. Ma la sua letteratura nasce al
femminile. Opera delle dame di corte del periodo Heian. Quando gli uomini, i poeti, scrivevano in cinese mandarino. E furono donne a usare la lingua natia.
Sei Shonagon, il sottile erotismo fiabesco de “Il libro del guanciale”.
Murasaki Shikobu. Il monumentale, poetico, “Il principe splendente”. Hanno lasciato un’impronta indelebile. Come Dante e Petrarca nella nostra cultura.
Poi venne l’età bellicosa del Bakufu. Il governo della tenda. Gli Shogun e i signori della guerra… ma restò questa impronta di gentilezza. Questa, elegante, armonia rarefatta. Essenziale. Chi abbia avuto la fortuna di assistere ad una cerimonia del tè, capisce cosa intendo.
Ogni cultura ha i suoi alberi. E i suoi boschi. Quella Giapponese ha la foresta di bambù. E gli alberi di ciliegio in fiore. Mishima ha dedicato pagine straordinarie alla fioritura dei ciliegi sotto un’improvvisa, e imprevista, nevicata. “Neve di Primavera”, il primo romanzo del ciclo de “Il mare della fertilità” è un capolavoro. Opera di una sensibilità estetizzante, che si fonde con un profondo senso del destino. E del magico.
La foresta, per noi, è cosa assai diversa. È la macchia mediterranea a sud. Luminosa, certo. Ma dove la luce viene filtrata dai cespugli di erbe aromatiche, dai grandi ombrelli dei pini marittimi. Dalle fioriture dei fichi e da quella dei roseti.
Poi, a nord, inizia il grande bosco. Le abetaie odorose di resine. I larici rossi come fuochi del tramonto. I mughi dal sapore aspro. E da lì, poi, la grande foresta oscura, che, un tempo si estendeva su tutta l’Europa centro – occidentale. E che risaliva sino ai ghiacci del nord. Una foresta di cui è simbolo la Quercia. Forte. Dura, cupa. E l’erica abbarbicata al suo tronco.
La poesia di Virgilio. E poi i Canti dei Nibelunghi. Ma anche la lirica d’amore di Provenza. Che diviene lo Stil Novo, Dante e Cavalcanti. E a Nord i Minnesinger. I cantori del Fin’amor. E il Parsifal di von Eschembach.
Wagner seppe dare voce a tutti i chiaroscuri di questa foresta. Dalla Walkiria a, appunto, il Parsifal.
La nostra civiltà nasce da questa sintesi. Macchia mediterranea e grande foresta nera. È un gioco di contrasti. Di disarmonie. Una musica, in fondo, dodecafonica. Dissonante. Che comprende lo splendore della civiltà greca, i templi di Agrigento. E Alboino che discende con i suoi longobardi.
Da questo il nostro Rinascimento. Guardate le sculture di Michelangelo. O anche l’affresco della Sistina, che, in fondo, è anch’esso scolpito. Con il pennello. Vi è un’armonia classica, mediterranea. Ma anche una forza barbarica. Una potenza primigenia. Come una foresta di querce e lecci.
Abbiamo progressivamente perso il senso di questo rapporto con il paesaggio naturale che ci circonda. Il nostro habitat è divenuto una foresta di cemento. Grigia, uniforme. E poi, si è sempre più trasformato in un ambiente virtuale. Dando ragione ad Arnold Gehlen, che, per primo, intuì che la tecnica stava diventando “natura seconda”. Sostituendo la natura. E portandoci a vivere in una dimensione sempre più artificiale..
Lungi da me, come si diceva un tempo, ergermi a moralista e laudatore, anacronistico, del passato. Un passato che non era certo tutto rose e fiori…
Però, le foreste, di lecci e querce, come di bambù hanno radici. La capacità di nutrirsi di nuove linfe. Di rigenerarsi.
Quello che abbiamo costruito, il nostro mondo virtuale, poggia sul niente. E non ha altra capacità di alimentarsi se non attraverso le ossessioni e le paure in cui viviamo.
È illusorio. Le foreste sono sempre esistite. Si sono estinti i dinosauri. Ma le foreste sono sempre sopravvissute.
Il mondo di cemento e asfalto, il mondo dei file e della realtà virtuale non ha la stessa forza. E ce ne stiamo accorgendo…