Tutto va bene. O forse no, per l’economia piemontese. La consueta ricerca della Banca d’Italia, illustrata da Cristina Fabrizi, ha preso atto della ripresa dopo i mesi della disastrosa gestione della pandemia. Dunque tutti gli indicatori sono migliorati, come era inevitabile che fosse. È ricominciata la produzione industriale, è ripartita l’edilizia grazie ai superbonus, sono aumentati gli investimenti, è cresciuta l’occupazione.
E sino a qui tutto pare andare a meraviglia. Poi, però, si rileva che il Pil è cresciuto in linea con la media nazionale ed è trainato dall’inflazione. No, non è una meraviglia. Soprattutto perché – ricorda Mino Giachino – il Piemonte da anni era in difficoltà a livello nazionale e, dunque, crescere nel solco della media significa non riguadagnare le posizioni perse. L’occupazione cresce, ma quasi esclusivamente per i contratti a tempo determinato, cioè non si esce dal precariato. E sul precariato non si costruisce proprio nulla di solido.
Particolarmente significativo l’andamento dei prezzi degli immobili. Più alti, ancora nel 2011 e sino al 2015, rispetto alla media nazionale e del Nord Ovest. Ora in leggera risalita ma sempre al di sotto delle medie nazionali e nordoccidentali. Il confronto con Milano è catastrofico anche sotto questo aspetto.
Ma non è incoraggiante neppure il dato finanziario. È cresciuta la redditività delle imprese, è cresciuta la liquidità. Però non si vede assolutamente nulla di strutturale per il rilancio della regione. Il tessile resta in crisi e l’automotive in ripresa rispetto al 2020, anno di chiusura generale, ma non nei confronti del 2019. E con prospettive per niente incoraggianti.
Prevale la prudenza, non la scommessa sul futuro. Chi può approfitta delle posizioni conquistate in passato. Ed i consumatori piemontesi non paiono interessati a farsi massacrare da aumenti dei prezzi immotivati perché vanno molto oltre gli incrementi legati ai rincari dell’energia e di alcune materie prime.