Chi ha vissuto la propria adolescenza a cavallo tra la fine degli anni 2000 e i primi anni ’10 riconoscerà sicuramente il nome di Vice. Chiunque abbia avuto un pc connesso a Internet e una giovanile intolleranza per un mainstream mediatico imbolsito e paternalistico (quanto suona ingenuo dirlo adesso) avrà sicuramente letto un loro articolo o visto un loro documentario.
Frotte di utenti, curiosi sulle stranezze della società contemporanea, vennero attirate dallo stile provocatorio dei pezzi scritti (nel pieno rispetto della tradizione del gonzo journalism) e lasciate incredule di fronte al totale sprezzo del pericolo con cui i reporter della rivista online attraversavano sottoboschi criminali urbani, zone di guerra come Siria, Liberia, Afghanistan e Nigeria o visitavano nazioni sotto impenetrabili dittature militari come la Corea del Nord.
Vice Media in quegli anni cominciò ad attirare non solo le lodi del pubblico ma anche quelle di molti addetti ai lavori, iniziando la sua trasformazione in un piccolo impero mediatico alternativo che stringeva partnership con grossi canali per la trasmissione dei suoi documentari su piccolo schermo. Uno dei suoi fondatori, Shane Smith, arrivò a decretare tredici anni fa, davanti a uno degli editori del New York Times, che Vice sarebbe stato l’ultimo chiodo nella bara del giornalismo classico.
Cosa è successo, dunque, a questa testata che da piccola rivista punk sembrava essere diventata l’apripista dei new media per un giornalismo indipendente, lontano dalle logiche del mainstream? Semplice: ha vissuto abbastanza a lungo da diventare il cattivo della sua stessa storia.
Vice si è trasformata, all’alba delle presidenziali americane del 2016 (sempre loro), nell’emblema di tutto ciò che ha sempre dichiarato di odiare: giornalismo da radical chic, sempre meno provocatorio e sempre più schierato, blando e politicamente corretto. La rivista ha finito così per alienare i suoi reporter e creativi più talentuosi e la gran parte di quella base di utenti che ne aveva decretato il successo, in cambio dei soldi di grosse società di investimento e di grandi corporazioni come la Disney, asservendosi come macchina “alt” della loro becera e paternalistica propaganda. Il figliol prodigo, dopo gli anni di ribellione è infine tornato all’ovile.
Col supporto di questi grossi investitori, Vice Media (arrivata nel 2017 a una valutazione più che esagerata di 5,7 miliardi di dollari) ha visto un’espansione disordinata, confusionaria e folle della sua operazione e dei suoi ranghi che si accompagnava a un drastico declino nella qualità dei suoi contenuti.
La rivista si è quindi trasformata nell’ennesimo pozzo senza fondo dell’intellighenzia della sinistra americana dove lo sperpero in progetti fallimentari e basi operative, tanto enormi quanto vuote e situate in quartieri di lusso, divenne la regola mentre la sua forza lavoro veniva sistematicamente falciata in massicci tagli del personale e la base d’utenza andava assottigliandosi giorno dopo giorno, allo stesso passo della qualità dei contenuti.
Dopo un 2022 finanziariamente disastroso, oggi il New York Times (quale ironia) scrive che nelle prossime settimane Vice dichiarerà bancarotta. Per ora circa cinque società hanno espresso interesse per l’acquisizione della compagnia, ma a quanto pare le trattative non sembrano aver avuto successo. Per evitare il fallimento, Vice potrebbe ancora trovare un compratore, ma le possibilità che questo accada, specie dopo le dimissioni dell’amministratrice delegata Nancy Dubuc, stanno diventando sempre più scarse. Con l’eventuale fallimento, la società di investimenti Fortress Investment Group, il più grande e vecchio creditore di Vice Media, potrebbe diventarne il proprietario.
A quanto pare, vendere l’anima al Diavolo non ha funzionato neanche stavolta.