Che il film dedicato a Barbie, la bambola simbolo della Mattel che ha rivoluzionato l’industria dei giocattoli, non sarebbe stato un capolavoro lo si sarebbe potuto intuire facilmente. Le pellicole nate per trasporre le avventure di prodotti come giocattoli, cartoni animati o videogiochi solo in rari casi si sono rivelate meritevoli di attenzioni e i casi di opere di qualità si contano sulle dita di una mano.
Dai trailer, rilasciati durante il corso di una massiccia campagna marketing, il film si presentava come una innocua commedia fantastica dai toni volutamente esagerati, che vede al centro dell’azione Margot Robbie nei panni della famosa bambola, affiancata da Ryan Gosling nel ruolo del suo eterno biondo e innamorato contraltare, Ken. Marketing aiutato anche dall’esplosione del fenomeno internettiano del “Barbenheimer”, meme nato per via dell’uscita su suolo statunitense in contemporanea con un’altra pellicola molto attesa: Oppenheimer di Christopher Nolan.
Quello che invece non ci si poteva aspettare (ma visto l’andazzo degli ultimi anni si sarebbe potuto e dovuto, ingenui noi) era un pastiche post-moderno ad alto budget di quasi due ore, infarcito dei peggiori stereotipi legati alla politica e alla società e spietatamente misandrico al limite del parossistico dall’inizio alla fine. Ma andiamo con ordine.
Partendo da quello che è probabilmente l’unico punto di forza del film, possiamo affermare come il comparto tecnico e registico sia di ottima qualità. Il film è un tripudio di tinte pastello e meravigliose scenografie direttamente ispirate ai modelli originali della Mattel. Il bombardamento sensoriale è fortissimo e cattura l’occhio sin dal primo minuto con il suo stile squisitamente kitsch. Un peccato che i commenti positivi si fermino qui.
La pellicola vede protagonista appunto Barbie, abitante di una colorata landa iperuranica brandizzata Mattel chiamata “Barbieland”, in cui ogni singola iterazione della bambola vive una vita di successi, onori e feste meravigliose. La bambola vive ogni giorno il giorno perfetto, finché strani pensieri legati alla morte non rovinano il suo collegamento con questo mondo ideale, portandola a dover cercare la risposta ai suoi problemi nel molto meno colorato mondo reale. Accompagnata da Ken scoprirà una realtà ben diversa da quella che aveva sempre vissuto e concepito, che non farà che acuire questa sua improvvisa crisi di identità.
Se ci fermassimo qui, rimarremo nei territori esplorati dai trailer, ma la pellicola di Greta Gerwig ha in serbo per noi molte amare sorprese. Partendo proprio dalla storia, la sceneggiatura a firma Gerwig e Baumbach è, senza giri di parole, raffazzonata. Incapace di seguire le più basilari regole della narrativa, il plot non riesce a generare neanche la minima tensione necessaria a rendere interessante il dipanarsi delle tutto sommato discrete premesse alla base.
Il vero problema sorge però quando si analizza più nel dettaglio la presentazione del film e dei suoi contenuti. Dove le Barbie sono modelli di ispirazione, successo e potere lontani dagli stereotipi di genere, i Ken vengono presentati come dei sub-umani, stupidi e vanesi, incapaci di auto-affermarsi e dipendenti dal giudizio delle Barbie in una sorta di rovesciamento grottesco del famigerato “Patriarcato” (che, non vi preoccupate, ha un ruolo centrale nel film).
Questa impostazione tematica è esplicita quanto offensiva sin dai primi minuti, dove in un richiamo inutile e demenziale a “2001: Odissea nello spazio”,e un gruppo di bambine osserva il Monolite Barbie e rompe ideologicamente con le radici tradizionali del ruolo stereotipico femminile di caregiver spaccando i vecchi bambolotti, simboli della schiavitù femminile alla maternità e al ruolo domestico (Vi prego, leggetelo almeno un libro di storia).
Si arriva poi a picchi altissimi di “ignoranza da Torre d’Avorio” nella seconda metà del film, dove tra monologhi e scene che ricorderanno ai più smaliziati i famigerati “pipponi” di Boris, Ken scopre nel mondo reale di avere una dignità a prescindere dall’essere visto da Barbie. La scoperta di “cose assolutamente tossiche” come il prendersi cura di sé stessi, la capacità di emanciparsi come individuo e, il peggio del peggio, il senso di fratellanza fra uomini, porteranno Ken a chiedersi se fino a quel momento non sia stato trattato ingiustamente come un oggetto, incapace di provare sentimenti e di avere una propria dignità personale.
Il bambolotto, che nella seconda metà della storia viene inquadrato come cattivo finale da sconfiggere (dato che scoprire la propria dignità di essere umano maschio conduce inevitabilmente al Patriarcato, fate i compiti) finisce, nella maniera più clownesca possibile, per diventare l’eroe tragico-farsesco di questa storia: un essere vuoto e spezzato, condannato a un destino quasi edipico in cui non può sfuggire alla sua natura di servo, nato solo per esistere quando qualcuno lo guarda, incapace di ispirare ma solo di essere lì, come una sorta di trofeo. Lo showdown finale vorrebbe far ridere, ma non ci resta che piangere.
Se è necessario spiegare ulteriormente perché questo baraccone ideologico è un concentrato di odio, ignoranza e polarizzazione così confuso da colpirsi da solo e minare i punti cardine del suo messaggio con una precisione chirurgica, congratulazioni, siete il pubblico di riferimento di questo film. Chiunque abbia invece ancora a cuore narrazioni umane, ma anche solo chi non odia circa metà del genere umano perché trascinato da squallide strumentalizzazioni politiche di problematiche delicate, può girare al largo da questo barile di scorie radioattive colorato di rosa confetto e guardare pellicole che le donne le esaltano e celebrano davvero.