“Ognuno tira l’acqua al proprio mulino”. La saggezza popolare non lasciava molti dubbi sulla tendenza a tutelare i propri interessi. Però il buon gusto dovrebbe sempre venir preservato. Guido Barilla non lo ha fatto. Dall’alto del suo ruolo di potere nell’azienda di famiglia, ha invitato i giovani a non stare sdraiati sul divano in attesa del reddito di cittadinanza. E sin qui tutto bene, anzi benissimo.
Poi, però, nell’intervista alla Busiarda (un quotidiano scelto non a caso) aggiunge che i giovani dovrebbero mettersi in gioco ed accettare lavori sottopagati. E perché mai? Perché non dovrebbero essere le aziende ad offrire lavori pagati onestamente, correttamente? Pare quasi che, per i capitalisti nostrani, lo sfruttamento sia lo strumento base per gestire le proprie aziende. Piuttosto di adeguarsi a salari decenti si preferisce lamentarsi sui giornali degli amici perché i giovani non accettano paghe da fame in cambio di lavori che superano gli orari contrattuali.

Naturalmente, al prossimo convegno pubblico, gli stessi imprenditori definiranno “preziosi collaboratori” tutti i dipendenti, compresi i precari sottopagati. E racconteranno che la manodopera qualificata è l’investimento strategico più importante. Salvo, poi, puntare su precari privi di competenza per risparmiare ulteriormente.
Difficile contrastare la perdita di competitività tagliando investimenti e retribuzioni, favorendo l’emigrazione di cervelli e l’immigrazione di braccia. Certo, Barilla preferirebbe che giovani laureati, specializzati accettassero contratti da fame, senza garanzie, senza prospettive. Ma per il loro bene, ovviamente. Per concedere loro la possibilità di mettersi in gioco per 15/20 anni. Mica di più. Solo il tempo necessario per trasformarsi da giovani precari in esuberi troppo anziani per restare in azienda.