Ammettiamolo: la pipa non è un bene di prima necessità. È un articolo voluttuario che, come tutte le merci similari, nel corso degli anni ha avuto un’evoluzione.
Il mercato è cambiato. Un tempo si bevevano vini fatti in casa o acquistati all’ingrosso; al massimo si consumavano vini di scarsa qualità prodotti da aziende che badavano molto più alla vendibilità del prodotto e alla quantità. Oggi non è più così. La cura nella lavorazione delle uve ha alzato di molto il livello qualitativo dei prodotti vitivinicoli, ma allo stesso tempo ne ha aumentato i prezzi. Una delle conseguenze è stata anche il proliferare di produttori, spesso piccoli o piccolissimi, che imbottigliano poco ma offrono agli estimatori vini di grande pregio.
Lo stesso è accaduto ai distillati. Fino a poche decine di anni orsono, in Italia si potevano trovare le grappe industriali e una decina di distillati stranieri. La qualità era piuttosto scarsa. Molti produttori di grappa distillavano di tutto e in certi casi si vantavano pure di utilizzare solo vinacce. Vi ricordate quando una nota marca sottolineava di imbottigliare soltanto il “cuore” del distillato dopo aver scartato la “testa” e la “coda”? Procedura che, se non fosse stata adottata, avrebbe fatto sì che il liquore sarebbe risultato imbevibile se non addirittura dannoso per la salute. Ma se quel marchio esaltava questa procedura vuol dire che molti non la adottavano: e chissà che cosa finiva in quelle bottiglie.
Anche il mercato pipario, nel corso degli anni, ha affrontato la stessa evoluzione. Se un tempo si producevano pipe di poco prezzo e di scarsa qualità, oggi l’estimatore del fumo lento non si accontenta più. Vuole pipe belle, lavorate con cura e fabbricate con i migliori materiali. Ma anche questi cambiamenti hanno fatto lievitare i prezzi e hanno avuto come conseguenza l’aumento dei produttori piccoli o piccolissimi. E hanno fatto anche sì che i grossi marchi abbiano perso importanti quote di mercato a favore della micro produzione.
Purtroppo, nell’ecatombe generale, sono rimasti coinvolti anche marchi storici che si erano ritagliati spazi magari poco significativi ma che hanno lasciato dietro di sé ricordi intrisi di nostalgia.
Abbiamo già parlato della Non Canta la Raganella del pesarese, capofila della scuola omonima. Ma vale la pena di ricordare le pipe Barontini di Livorno, di cui si sono perse le tracce.
Nel 1890 Turildo Barontini aveva aperto un laboratorio per la produzione di pipe in radica. Nel 1925 l’attività proseguì con il figlio Bruno, che, come il padre, lavorava soprattutto per altre ditte. Nel 1946, dopo una pausa di sette anni dovuta alla guerra, Bruno e il fratello Illico ripresero la produzione che fu continuata, a partire dal 1955, dal figlio di quest’ultimo Cesare. Col tempo, e dopo una parentesi che vide anche il fratello di Cesare, Illio, tentare, con poca fortuna, la strada della produzione in proprio, le pipe Barontini sono scomparse dalla circolazione. Esiste un sito Internet che non viene aggiornato da tempo, e niente più. E i collezionisti continuano a interrogarsi su che fine abbia fatto questo marchio storico.
La stessa sorte toccò alle pipe Cassano di Cassano Magnago, in provincia di Varese. Di proprietà per generazioni della famiglia Ceresa, l’azienda ha prodotto pipe fino al 2014, quando Carlo Ceresa e sua moglie Carla decisero di interrompere l’attività.
Sorte analoga a quella delle pipe Diapede di Torino e del loro storico negozio in via Monte di Pietà a Torino. Specializzati in pipe di schiuma, a partire dagli anni Settanta si lanciarono anche nei prodotti in radica. Oggi la Diapede non esiste più, così come il loro negozio che fu il primo a commercializzare le pipe nel capoluogo piemontese.
Certo: in tutti e questi casi non si trattava di prodotti di alta qualità. Ma siamo davvero sicuri che quelli che li hanno sostituiti lo siano?