I «maicuntent» sono serviti: dopo la brutta sconfitta casalinga contro Avellino, maturata peraltro nella ripresa, dopo un primo tempo giocato bene e che ha visto Torino andare anche in vantaggio a doppia cifra e dopo la dura contestazione del pubblico,
che a più riprese ha invocato il nome di Paolo Galbiati, Larry Brown e la società hanno deciso di dirsi addio.
La decisione, in realtà, era nell’aria da settimane, ma la conferma è arrivata soltanto ieri con una nota ufficiale diramata dalla società: «Coach Larry Brown e Fiat Torino, dopo aver analizzato attentamente la situazione della squadra, hanno deciso di comune accordo, nell’interesse di entrambe le parti, di interrompere la collaborazione in essere. Fiat Torino ringrazia coach Larry Brown per l’impegno profuso in questi mesi alla guida della squadra oltre che per il grande contributo umano che ha saputo trasferire a tutti i componenti della Società. Coach Larry Brown, dispiaciuto per i risultati che non sono arrivati come avrebbe voluto e sperato, ringrazia la Fiat Torino e la famiglia Forni per la fiducia e la stima dimostrate, senza soluzione di continuità, in tutti questi mesi. La Società comunica, inoltre, che la squadra è stata affidata alla guida tecnica di Paolo Galbiati coadiuvato da Stefano Comazzi».
Si torna così all’antico, a quel Galbiati che con Torino aveva vinto poco più di un anno fa la Coppa Italia per poi – dopo la parentesi Recalcati – non riuscire a raggiungere la zona playoff.
Ottimo ragazzo, Paolo Galbiati. Giovane e preparato. Piuttosto che andare sul mercato per prendere un allenatore che non avrebbe probabilmente fatto la differenza (tutti i migliori sono ovviamente già accasati) era giusto e naturale puntare su di lui.
Ma per come la vediamo noi l’addio di Larry Brown – che farà contenti, almeno fino al prossimo ko, i «maicuntent» – rappresenta una grave sconfitta non soltanto per la Torino cestistica, ma per tutto il basket nazionale.
Bisogna ricordarlo per chi, magari, non lo sapesse: Larry Brown è una figura leggendaria, che non può essere in alcun modo messo in discussione. Mai e poi mai. Negli Usa, figuriamoci nel Belpaese.
Sostenere che Brown «non sia adatto» alla pallacanestro europea e, in particolare, a quella italiana, sarebbe come ritenere che un Mourinho, un Conte o un Guardiola non siano in grado di allenare una squadra di calcio cinese, americana o australiana.
Larry Brown, infatti, non è stato soprannominato «The legend» per caso: lasciando da parte la carriera da giocatore (non certo fenomenale, ma nemmeno da buttare via) Brown è stato infatti l’unico coach a vincere il titolo NCAA, nel 1988 e poi, con i Detroit Pistons, l’anello NBA nel 2004, oltre ad aver vinto per 3 volte (1973, 1975, 1976) l’ABA Coach of the Year Award.
Sentire al Palavela addetti ai lavori e tifosi invocare nomi di altri allenatori elevati a eroi cittadini per qualche partita vinta e per aver «sbattuto la porta in faccia» alla Società (Tecnici che in Italia hanno vinto soltanto quando guidavano le corazzate e che in Europa arrancano) è davvero pratica legittima, ma al limite dell’irriguardoso.
Che è successo?
Alcuni sostengono che il problema sia l’età di Brown, che ha dovuto saltare – oltretutto – numerose settimane per risolvere alcuni lievi problemi di salute.
Ma il tecnico, nato a Brooklin il 14 settembre del 1940, ha sempre lavorato con grandissima professionalità, andando a farsi curare negli Usa, certo, ma tornando poi a Torino nel minor tempo possibile e lasciando a supervisionare la squadra il suo assistente, Dante Calabria, anche egli, oggi, partente.
Altri ritengono che il suo basket fosse «vecchio»: pochi tiri da tre, ossessione per l’attacco al ferro e un gioco non più adatto al «basket moderno».
Ma, ci chiediamo: il gioco dei Detroit Pistons del 2004, dove militavano elementi attivi ancora fino a pochissimi anni fa come Chauncey Billups, Richard Hamilton (due tiratori micidiali dalla lunga distanza, peraltro), Ben Wallace, Rasheed Wallace e Tayshaun Prince era così tanto «antico»?
E allora, forse forse, vanno più vicino alla verità quelli che sostengono che alcuni giocatori stranieri in rosa (evidentemente nemmeno lontanamente paragonabili, in quanto a talento, ai sopracitati fenomeni di quella Detroit capace di fermare i mitici Lakers di Kobe Bryant e di Shaquille O’Neal) lo avessero in qualche modo abbandonato, non seguendo fino in fondo quelle che erano le sue indicazioni.
Le stesse indicazioni che Brown aveva, a suo tempo, impartito a un fenomeno dal carattere difficilmente gestibile (per usare un eufemismo) come Allen Iverson, che – come lui stesso ammette oggi – è diventato quel che è diventato proprio grazie a coach Larry.
Ora però non è tempo di chiacchiere, ma di fatti e lavoro. C’è una partita difficilissima domenica a Cremona e un’altra, sempre difficile, nel giorno dell’Epifania in casa contro una Cantù in difficoltà, ma che potrebbe ritrovare motivazioni proprio contro gli storici rivali gialloblù. Paolo Galbiati e Stefano Comazzi sono chiamati a un compito più che arduo.
Occorre sostenerli fino in fondo, così come occorre sostenere la famiglia Forni. Che come tutti avrà sbagliato qualcosa, ma sempre in buona fede. E che ha e avrà sempre il merito di aver riportato il grande basket sotto la Mole, oltre che il promo trofeo della storia dell’Auxilium.
I playoff non devono essere un sogno. Bisogna però crederci e remare tutti dalla stessa parte.
Foto https://www.auxiliumpallacanestro.com/