In America Latina si fa sempre più spazio l’ondata liberal-conservatrice che ha riportato in auge la destra lungamente emarginata dall’inizio degli anni Duemila nell’intero continente.
Ad essere stati solo sfiorati da governi aderenti al socialismo del XXI secolo sono Paraguay, Perù e Colombia.
Nel primo caso il mandato dell’ex vescovo Fernando Lugo non è arrivato nemmeno alla scadenza naturale in seguito al voto di impeachment da parte del Parlamento. Pur avendo ricostruito la coalizione di centrosinistra che aveva consentito la storica elezione di un presidente progressista alle ultime elezioni presidenziali si è imposto Mario Abdo Benítez, figlio dell’ex segretario personale del dittatore Alfredo Stroessner. Nei primi sei mesi di governo Benitez ha portato avanti il lavoro del predecessore Horacio Cartes, pur non aderendo alla stessa corrente all’interno dello storico partito Asociación Nacional Republicana – Partido Colorado (Associazione Nazionale Repubblicana- Partito Colorato, ANR-PC), schierandosi in prima linea contro il Venezuela bolivariano all’interno del Gruppo di Lima, stringendo alleanze continentali con i nuovi governi neoliberisti delle confinanti Argentina e Brasile e allineandosi ai dettati di politica economica cari agli Stati Uniti.
Anche il Perù nonostante il mandato di Ollanta Humala promettesse uno stravolgimento della linea politico-economica non ha conosciuto nuovi assetti costituzionali, redistribuzioni economiche e riforme sociali. Le dimissioni dell’economista Pedro Pablo Kuczynski hanno fatto ereditare il mandato presidenziale al suo vice Martín Vizcarra che da poco meno di un anno sta tenendo in piedi un governo privo della maggioranza parlamentare.
Poco o nulla è cambiato anche in Colombia dove l’elezione di Ivan Duque, falco e fedelissimo dell’ex presidente Alvaro Uribe, sembrava minacciare la pace siglata con il gruppo guerrigliero marxista delle Farc. Duque sembra aver ereditato in tutto e per tutto la carica dal suo predecessore, quel Santos prima temuto braccio destro di Uribe, per il quale gestì il gabinetto della Difesa, e poi in grado di ottenere il premio Nobel per la Pace per aver decretato la fine della guerra civile più lunga del mondo con gli accordi di Bogotà. L’adempimento degli accordi risulta lento e macchinoso ma i primi propositi bellicosi di voler rivedere o stracciare del tutto una pace che “rendeva impuniti” i guerriglieri sembrano essere alle spalle.
Di sicuro questi tre Capi di Stato rappresentano delle certezze nel continente per la rinnovata Dottrina Monroe dell’amministrazione Trump in vista della scadenza elettorale argentina del prossimo ottobre che vede a rischio la rielezione dell’imprenditore Mauricio Macri e dell’imprevedibilità di Bolsonaro, il Trump brasiliano che veleggia contro gli interessi del suo stesso Paese non più di tre anni fa indicato fra le potenze regionali emergenti nel nuovo sistema multipolare.