Il racconto di Edgar Allan Poe che sempre più mi ha colpito è “Berenice”.
Lo so, lo so… Non è, certo, il capolavoro. Né il più inquietante e misterioso. Quei primati spetterebbero, a pieno titolo, a “La caduta della casa Usher”, o, anche, a “Il barile di Amontillado”, “Ligeila”…
“Berenice” ha, in fondo, una trama alquanto esile. Quasi inesistente. E gioca, scopertamente, su un tema più volte sfruttato da Poe. Che era un genio. Ma un genio perennemente in bolletta. E per vivere doveva scrivere come un dannato. A cottimo. Così certi temi, che incontravano il favore dei lettori del tempo, gli venivano richiesti da editori e direttori di giornali. E lui li sfruttava sino al midollo.
La genialità, e originalità, di Berenice non sta, però, in questo. Non nella morte apparente, e neppure nella, terrificante, scena finale. Consiste, piuttosto, nella ossessione del protagonista per un particolare. Perché lui ama la giovane donna. Ma ama soprattutto il suo sorriso, che lo ha incantato sin dal primo momento. Atteggiamento, a ben vedere, poetico. Quasi stilnovistico. E Poe, che era in primo luogo un poeta, lo doveva sapere bene.
Solo che il colpo di genio – ancorché di un genio per certi versi malato – consiste nel trasformare questo amore per un particolare “spirituale”, meglio ancora angelico come il sorriso, in una folle, morbosa attrazione per…i denti. Ovvero per l’elemento materico che il sorriso esprime. Ma che di per se stessi, estratti dal contesto, perdono ogni bellezza. Ogni attrattiva. Sono solo piccoli frammenti d’Avorio sanguinolenti….
Eppure il protagonista del racconto è ossessionato proprio dai denti di Berenice.
Lugubre. Morbosa. L’atmosfera è patologica. Pervasa da una malattia mentale ben più invasiva e infettiva di qualsiasi virus… Eppure, quel geniaccio malato e pieno di alcool e droghe di Poe, centra bene, come nessun altro, una questione fondamentale. Uno dei misteri della psiche, ovvero dell’anima umana. E del suo rapporto, fondamentale e inscindibile, con l’eros.
Per comprendere meglio, dovrei rievocare nella memoria Apuleio. Quell’inserto, un vero e proprio cammeo, de La Metamorfosi, che è la fabula di Amore e Psiche. Psiche è perdutamente innamorata del, misterioso, “sposo” che ogni notte viene a trovarla. E la possiede. Però è stata avvisata. Non può vederlo. Altrimenti lo perderà per sempre. Poi, però, sobillata dalle sorelle – che la deridono, dicendo che il suo amante è un mostro – accende una lucerna e…
L’Amore si nutre, dunque, del mistero. E si rivela attraverso poche sensazioni. Emozioni. Che si affacciano alla coscienza, spesso, in forma di…particolari.
Petrarca descrive il corpo di Laura. Si sofferma sul seno angelico. Sul bel fianco… Sono particolari, che mettono in luce la bellezza. Come, altrove, i capelli d’oro sciolti nel vento.
E non voglio tornare a parlare di D’Annunzio, del suo descrivere “le mani”. Lo ho già fatto. E non
vorrei che il direttore mi dicesse che sto diventando un feticista.
Che, per altro, è una perversione dell’eros. Il fissarsi, ossessivi, su un particolare. Il piede, la bocca… nel caso estremo di Berenice i denti. Colto, però, solo nel suo aspetto fisico. Come se fosse un oggetto materiale. Cosa che, invece, non è.
Cogliere un sorriso, la piega delle labbra, il colore degli occhi, i capelli sciolti o, come dice Omero, con le trecce ben attorte, non è vedere solo un qualcosa di materiale. O meglio, come dicevo prima, di materico. È intuire, spesso senza rendersene conto, il mistero dell’eros. Il cui volto non può mai venire pienamente conosciuto dalla coscienza razionale. Perché andrebbe perduto. Per sempre.
Pensateci… Quante volte l’abitudine, la quotidianità porta a spegnersi passioni che credevamo essere grandi? Addirittura Immortali?
Quante volte la piena conoscenza dell’altra, dei suoi comportamenti, anche dei suoi difetti, estingue quel desiderio che, inizialmente, sembrava essere un vero e proprio incendio? Poi, magari lo sostituisce con affetto, stima, altri sentimenti…quando va bene. Quando non ci si ritrova estranei nello stesso letto.
Comunque vada, non è più Amore. Non quello intuito e anche solo minimamente sperimentato, nel suo attimo aurorale.
Alla fin fine è arte difficile. Amare significa avere sempre presente che si è di fronte a un mistero. E che la ragione, che tutto calcola e misura, non può né coglierlo, né tanto meno spiegarlo. Lo può solo uccidere.
Allora bisogna saper cogliere i particolari. Fisici e non. Le sfumature. Il profumo che ti sorprende, e subito viene disperso dal vento. Un sorriso o uno sguardo.
Ma bisogna stare attenti. Quei particolari sono porte che si socchiudono, o forse solo buchi della serratura dai quali ci è dato sbirciare cosa davvero sia Amore. Cosa sia l’Amata. Se, però, li prendiamo non come segni, simboli, e ci fissiamo su di loro, sul loro essere oggetto materiale, allora inizia la malattia… Si passa da Petrarca alla patologia ossessiva di Berenice…
Si vabbè…dirà qualcuno o, forse, qualcuna… Tu parli, parli, ma alla fin fine la tua è sempre e solo una prospettiva maschile. Non tieni mai conto di ciò che prova la donna. O meglio, per restare in tema, da quali particolari di un uomo la donna resta presa…
Beh, quel qualcuno (o qualcuna) avrebbe pienamente ragione. Io mi baso sulla mia ottica ed esperienza. E quindi parlo della Donna. A parlare dell’Uomo dovrebbe essere qualcun altro. O altra. Non è mestiere mio…