Io e il mio gruppo di amici, per scherzare sul nostro essere nati in famiglie normali nonostante i nostri gusti da “vecchi ricchi”, ci chiamiamo “Feudal Gang”. Con la Feudal Gang siamo al Cairo per la nostra festa d’autunno. Visto che abitiamo in angoli diversi dal mondo, ogni tre mesi organizziamo una festa per rivederci e stare insieme. La festa d’autunno del ‘23 si è tenuta al Cairo. Nessuno di noi ha pensato di annullare il viaggio nonostante fosse scoppiato il conflitto forse una settimana prima della nostra partenza. Siamo partiti facendoci battute sul fatto che l’unico plausibile obiettivo sensibile del Cairo potrebbe tranquillamente essere stato proprio il nostro hotel (perché pieno zeppo di turisti occidentali e gli arabi quando si parla di occidentali, danno per scontato siano tutti pro-Israele) quindi siamo qui da due giorni, spiaggiati in un hotel a cinque stelle sul Nilo, a bere champagne (perché nulla è Haram se hai abbastanza dollari per tippare i tizi dell’hotel) a fare sarcasmo sui drammi di Gaza, da buoni europei bianchi (insomma chi più chi meno, ma ci siamo capiti: essere bianchi è una condizione di privilegio più che di colore della pelle) che come direbbe Nassim Taleb non sono per nulla “skin in the game” e quindi è loro impossibile cogliere appieno la gravità del fenomeno né la tensione emotiva fra due popoli che si odiano da, sì e no, cinque mila anni.
Ma io oltre a essere un provocatore narcisista sono ahimè molto curioso e quindi a tutti gli arabi in grado di spiccicare due parole in inglese chiedevo “how do you feel about the war between Israel and Palestine?”. Come ti senti rispetto la guerra Israele, palestinese? Mi hanno risposto tutti allo stesso modo: “it’s not even a war. It’s just a genocide”. Non è nemmeno una guerra, è un genocidio.
Infatti a meno che non imbeccati da un turista annoiato, qui della guerra Israeli-palestinese, paradossalmente, non parla quasi nessuno. Tutti al Cairo al massimo parlano solo di una cosa: il massacro dei palestinesi a opera degli israeliani. Quando si fa loro notare (agli arabi egiziani) che paracadutarsi in un festival di musica elettronica con gli AK-47 spianati con il chiaro intento di uccidere e distruggere, non sia proprio né un gesto furbo, di pace, né il miglior modo per presentarsi al mondo occidentale (unico stakeholder che può davvero risolvere il conflitto obbligando i due stati a riconoscersi a vicenda e deporre le armi e riconoscere l’uno i confini dell’altro), ecco che essi rispondono dicendo “Hamas ci difende dal massacro dei palestinesi a opera dei nazisti di Israele”. I nazisti di Israele mi fa ridere tutte le volte che lo leggo o lo scrivo. Però mi fa anche molto riflettere su quella frase che postano i 45enni post primo divorzio: “o muori da eroe oppure vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo”. Non che gli israeliani siano cattivi (o almeno non che mi importi più di tanto) ma che ci sia – a livello internazionale – un grande cambiamento rispetto a come venga percepito lo stato di Israele (oggi rispetto al ‘48 è un fatto, manco un’idea). E non vuol dire mica essere anti-semiti. Da 6 milioni di morti per la “Soluzione Finale” di Hitler alla vittoria in 6 giorni contro ben tre eserciti (sbaragliati, soverchiati contemporaneamente), direi che ci sta un bel colpo di reni. E quindi inevitabilmente anche della percezione che il mondo ha di te.
Ora, io non sono mica un esperto di crisi mediorientale – lungi da me, non sono un esperto di nulla – però in queste settimane prima di partire per Il Cairo (anche solo per tranquillizzare mia sorellina, preoccupatissima) ho letto qualcosa ma soprattutto ho ricordato le parole di un’importante giornalista torinese, esperta di Medioriente. Con mamma e papà, quasi ogni settimana, organizzavamo grandi cene e grandi pranzi con lei e la sua famiglia. Mamma parlava delle diseguaglianze del Brasile mentre la giornalista torinese parlava del conflitto in Medioriente e della questione palestinese. Io e il figlio della giornalista un po’ ascoltavamo rapiti quelle donne che ci spiegavano il mondo, un po’ ci facevamo i cazzi nostri e giocavamo a Risiko (perché alla fine rimani sempre in tema rispetto al tuo contesto di provenienza, anche quando non lo sai, tipo da bambino). Però insomma, inutile dire che qualche riflessione, domanda, sensibilità rispetto a chiedersi quali complessità muovono il mondo ci avesse permeato e quei discorsi sul mondo e su come si fosse dipanata la modernità post seconda guerra mondiale ci sono rimasti nella testa e nel fegato.
Mamma e la giornalista non si frequentano più ma tutt’oggi io e suo figlio siamo grandi amici, gli voglio un gran bene e delle volte con nostalgia ricordiamo quei pranzi e quelle cene in cui eravamo figli e le nostre madri erano ancora un faro che illuminava i punti interrogativi del mondo.
Sulla Palestina, per esempio, la giornalista ci spiegava che la questione mediorientale è una storia fatta di errori storici a opera degli occidentali che di quell’angolo del mondo, han sempre faticato a capire i funzionamenti.
Sosteneva per esempio che accordare a un popolo il fatto che un certo spazio geografico effettivamente sia la loro “terra promessa da Dio”, forse è stata più una politica riparatoria dell’orrore della Shoah (come se avesse importanza quello che viene menzionato come “terra promessa” in un romanzo fantasy), forse sul lungo periodo non è stata la mossa più lungimirante della storia politica. Forse Israele stava bene anche al confine con il North Carolina, in US, o al nord dell’Irlanda, in UK, e sticazzi di Gerusalemme. Ma mi rendo conto che io sono un insensibile materialista storico, ateissimo, e quindi l’assunzione secondo la quale un presunto dio avrebbe assegnato a un gruppo di persone con il pene mutilato, che non lavorano il sabato e non mangiano il bacon, un certo o determinato posto nella cartina geografica mi sembra follia (o appunto fantascienza).
La giornalista però era in grado di fare un ragionamento ampio e quindi non solo parlare delle assurdità di Israele ma anche delle vergogne del mondo arabo e della peggiore cultura islamica. Quindi se da un lato parlava dell’atteggiamento di Israele come occupante, dall’altro ci ricordava che una certa storia araba affonda le radici nella diseguaglianza tra sessi, nell’intolleranza verso il diverso e nella radicalità religiosa. E durante il weekend con la Fuedal Gang ho ripensato a questo ampio quadro e alle contraddizioni che mostra.
Il mio amico della Feudal che ha organizzato la festa d’autunno è assurdamente gay e sostiene che non ci sia nulla di più eccitante che essere omosessuale laddove esserlo sarebbe illegale. Ha ragione perché lo champagne non è mai stato così dissetante come lungo le strade del Cairo. Di nuovo, se hai abbastanza dollari l’Islam diventa subito facoltativo e Haram (ndr. in arabo significa “vietato da Dio”) finisce per far rima con “fun”.
Allo stesso tempo però ci rendiamo conto che commemorare la Shoah ma al tempo stesso lasciare civili, bambini, senza acqua e senza elettricità non sia il più alto e coerente dei comportamenti. Molto più grave aver minacciato su Instagram Gigi Hadid ma questa è un’altra storia.
Quindi nella dicotomia degli arabi occupati che però vorrebbero rendere illegale un certo tipo di sessualità (o di parità di genere, ma di nuovo, questa è un’altra storia), contrapposta agli ebrei di Israele che da un lato eterne vittime della seconda guerra mondiale, dall’altro famelici, aggressivi coloni, guidati da un governo che più a destra non si può, il quadro si colora di rosso e di nero. Rosso come il sangue e nero come il rancore.
Hamas non è partigianeria esattamente come Israele non è una innocente democrazia che difende i valori occidentali nel Medioriente.
Questi si odiano da cinque mila anni e finalmente abbiamo dato loro, 70 anni fa, il permesso per litigare e distruggersi.
Sarebbe bello ragionare di questa guerra non in ottica di tifoseria (sionista o antisionista; pro Palestina, contro Israele etc) bensì secondo un’ottica risolutiva e quindi per il “cessate il fuoco”. Ma questo non sarà possibile perché dietro le diatribe religiose, soffia il fuoco della guerra fredda 2.0. E quindi come nel ‘67, (come in Siria) il conflitto diventa teatro di posizionamento fra destre e sinistre, tra Biden e Putin, tra Gigi Hadid e un team di social media manager ortodossi. Ma mi rendo conto che questa stessa (la soluzione risolutiva) sia un ragionamento eurocentrico, biased dall’essere cresciuti con concetti illuministi e neo giusnaturalisti.
Scherzando prima della festa, dissi al manager dell’hotel che l’unica risoluzione del conflitto sarebbe stata “bombardare” tutta l’area di Gaza con bacon, salsicce e prosciutti e mettere le persone di fronte all’unica cosa che hanno in comune: l’assurdità di vertere la propria vita, la propria società, su un testo religioso (ripeto, quindi di fantascienza); ma lui non ha capito la mia battuta, ha esclamato “haram!” e io mi son dovuto scusare.
Daniel Sloss, uno dei miei comici prefe, scrisse in uno sketch: “i vegani di facebook stanno ai vegani come l’Isis sta all’Islam: dei fondamentalisti che per qualche ragione hanno deciso di incazzarsi con il bacon”. Avreste mai detto che avremmo trovato un minimo comun denominatore fra Israele, la Palestina, i vegani e la mia ex? Io sì, infatti tifo per il maiale in tutte le sue forme.
Il fidanzatino del mio amico gay, egiziano, mi disse in un momento molto toccante che lui sarebbe disposto a morire per l’Egitto casomai Israele dovesse tentare di occuparti la penisola del Sinai. Io gli chiesi “brother, ma tu moriresti per una nazione che rende illegale il tuo modo di amare?”.
Lui mi rispose “certo. Comunque è la mia nazione. Dio vuole che la difenda”.
Inutile dirvi che io non morirei per l’Italia. Mai. Ma non ci penserei nemmeno due secondi. Il concetto manzoniano di nazione o di popolo non appassiona me, né chiunque abbia un quoziente intellettivo superiore a quello di una sedia.
Eppure quante sedie vogliono uccidere altre sedie, per la convinzione di credere nella sedia migliore? Ma le sedie rimarranno sedie, anche quando si convinceranno di essere raffinati “tavoli da banchetto”?
Infatti può capitare che nell’assurdità della guerra, nelle battute finali di una festa al Cairo, una manciata di arabi gay si ritrovi ad ascoltarmi suonare al pianoforte la colonna sonora di Schindler List’s e alla mia domanda “Do you know the song?”. Conosci la canzone?
La risposta del giovane arabo: “no non la conosco. Non so cosa sia. Ma è davvero molto bella. Mi piacerebbe impararla” mi suona come la più luminosa speranza verso due popoli che magari attraverso la bellezza e la sofferenza possano trovare punti di dialogo invece che eterni motivi per uccidersi a vicenda.
Se aderissi alla destra becera, se fossi un provocatore che vive per il gusto della provocazione, cioè uno stupido, scriverei che alla fine della storia il colonialismo non era un’idea poi così orribile. Almeno le nostre (di noi europei) di motivazioni erano economiche (il reperimento di risorse e manodopera a basso costo) non certo religiose o di superstizione. E scusate se è poco.
Grazie a Dio e al Cielo, odio le preterizioni.