Dopo aver letto, diversi anni fa, un paio di libri di Bret Easton Ellis, mi ero fatto di lui l’idea che fosse un “nerd” nord americano, e più precisamente losangelino, un rampollo della upper-class che nei suoi libri badava più alle apparenze che non alla sostanza. Mi infastidiva in particolare la sua ossessione nell’elencare i marchi di fabbrica di tutto ciò di cui parlava: mi sembrava un modo un po’ pacchiano di fare pubblicità ad aziende dalle quali, sospettavo, riceveva compensi affinché venissero citate nei suoi libri.

A distanza di anni mi sono tuttavia detto che, se dopo la lettura di American Psycho, mi ero avventurato anche tra le pagine di Meno di zero, un motivo doveva pur esserci. E non poteva essere solo perché il titolo di quest’ultimo citava una canzone di Elvis Costello che mi piaceva molto. Un altro suo libro, Imperial Bedroom, si intitolava come l’intero album del cantautore britannico. Un disco che amo molto anche se non ho mai letto il libro omonimo.
Ma ero ancora relativamente giovane e piuttosto prevenuto. Allora ero ancora convinto che se uno scrittore, o un musicista o qualsiasi altro artista, aveva successo fosse da snobbare in modo definitivo e acritico.
Pertanto quando un amico mi ha consigliato di leggere “Bianco” (Einaudi Super ET, pp. 268, 12€) uscito in Italia alla fine dello scorso anno, ho storto un poco il naso.
Non si tratta, contrariamente ai lavori precedenti di Easton Ellis, di un romanzo, bensì di un libro confessione, una sorta di autointervista su svariati argomenti che l’autore sente vicini ai suoi interessi.
L’esperimento non è nuovo. Anzi, sembra che tutti i personaggi di successo americani, e gli scrittori più degli altri, sentano il bisogno, ad un dato momento della loro carriera, di pubblicare un testo del genere. Forse ciò è richiesto dalle case editrici che impongono ai loro autori di scrivere un tot di libri pubblicabili in un periodo di tempo prefissato e devono fare i conti con l’inaridimento della verve narrativa degli artisti ai quali hanno versato cospicui anticipi.
Però devo dire che “Bianco” mi ha davvero sorpreso e mi ha fatto rivalutare il suo autore. Non solo per l’abilità “narrativa”, la fluidità e la chiarezza delle sue argomentazioni, l’ironia priva di astio, la capacità di rendere interessanti anche temi e personaggi che per noi italiani sono poco noti. Soprattutto mi ha colpito la vis polemica contro il dilagare del politicamente corretto, la nausea nei confronti del pensiero unico obbligatorio, l’insofferenza verso l’ignoranza che si fa pensiero comune, nonché la superficialità che trapela da ogni pagina di giornale o trasmissione televisiva, e che poi si riversa sui social.
Un disgusto che non porta soltanto all’indignazione, ma che diventa una denuncia ben precisa. Secondo Easton Ellis, infatti, la mediocrità dilagante ha lo scopo di ridurre tutti al “silenzio e alla sottomissione”. Se tutti dicono la stessa cosa, è come se nessuno dicesse nulla. E se qualcuno si azzarda a dire qualcosa che non sia in linea con il mainstream che quotidianamente ci viene riversato addosso, ecco che scatta l’esclusione, il silenziamento, la morte mediatica.

Il libro, che pur fa riferimento spesso ai social, è stato scritto prima che Facebok Twitter e soci lanciassero la recente campagna di esclusione di tutto ciò che non ritengono allineato, ma già denunciava casi analoghi che l’autore ha sperimentato in modo diretto e in prima persona.
Insomma: si tratta di una lettura piacevole e molto stimolante, grazie anche all’eccellente traduzione di Giuseppe Culicchia che, con ogni probabilità, tra le pagine di Bret Easton Ellis ha trovato le motivazioni per compilare il suo “E finsero felici e contenti”, uscito quasi in contemporanea per Feltrinelli.